Lo Statuto compie 50 anni, ma l’eredità di Giugni è altro, di Alberto Orioli
C’è un paradosso quando si parla di lavoro. Se i 50 anni dello Statuto dei lavoratori non sono ben portati, o comunque rispecchiano tutto il tempo trascorso, i 93 anni che avrebbe oggi Gino Giugni, “padre” di quella legge, manterrebbero tutta la loro freschezza e vivacità intellettuale. La legge 300/1970 fa i conti ormai con le nuove regole su privacy e controllo, rappresentanza, licenziamenti, solo per citare alcuni dei temi più rilevanti. Il tempo è trascorso con la progressione dei passaggi tecnologici e con la perdita di centralità del lavoro dipendente, con la difficoltà a normare autonomia e subordinazione di fronte alle nuove forme di impiego che sfuggono a schemi troppo rigidi. E lo stesso Giugni lo aveva intuito tra i primi.
Ciò che rende vivo questo anniversario sono le Idee per il lavoro, così come le chiama Silvana Sciarra nel volume che raccoglie alcuni scritti di Giugni con l’obiettivo di rilanciare l’attualità dell’approccio dottrinale e del metodo per dare valore giuridico alla dialettica sociale.
Giudice costituzionale e allieva di Giugni, Silvana Sciarra ripropone la catena dei valori a cui l’inventore del diritto sindacale, uomo politico e di governo, aveva ancorato la sua elaborazione giuridica. E il primo anello non poteva non essere la dignità del lavoro, la stessa che i costituenti hanno suggellato nell’articolo 1 della Carta. Giugni era socialista deamicisiano, come amava dire di sé, attento a una forma di solidarietà empatica e quasi eroica, sostenuta con convinzione e consapevolezza anche delle possibili, facili critiche.
Lo Statuto altro non è - come spiega Sciarra - che una prima robusta produzione della «legislazione di sostegno» che attingeva dall’esperienza concreta delle dinamiche nei luoghi di lavoro e diventava approdo fattivo dello studio dell’autonomia collettiva, fino ad allora terra incognita. Giugni coglieva un’inedita «dimensione normativa dei fatti», approccio considerato di scandalo dalla comunità dei giuristi, incapaci di abbandonare la costruzione dottrinale emersa con le idee corporative.
L’attualità delle Idee per il lavoro che l’autrice intende sottolineare è proprio in questo spirito fuori schema, libero e moderno, in grado di inserire i temi in contesti comparati (impensabile allora per le anguste prospettive del provincialissimo e polveroso giuridicismo italiano).
Dignità dei lavoratori - e inevitabile asimmetria nel gioco delle forze tra capitale e lavoro - ma approccio sempre riformista, laddove ciò significhi pragmatismo e flessibilità interpretativa. Cosa che farà dire a Giugni che, ad esempio, i diritti quesiti, il must su cui per decenni era rimasta ancorata la dottrina sulla previdenza e sul pubblico impiego, erano una finzione, fonte di privilegi in netto contrasto con «l’idea di combattere le diseguaglianze» e con la volontà di «costruire tutele intorno alle condizioni reali dei destinatari, in una visione ampia della subordinazione». E chissà cosa avrebbe detto oggi Giugni della gig economy o del lavoro governato dall’algoritmo delle piattaforme digitali?
Giugni esercitò il suo particolare riformismo anche quando si batté per il superamento del collocamento pubblico e delle sue anacronistiche inefficienze. Scrive Sciarra: «Il pensiero riformatore, niente affatto appiattito su posizioni assistenziali, è orientato a promuovere i valori della cultura industriale in un quadro di ammodernamento complessivo delle regole che governano l’incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro».
E quanto sia moderno e scomodo quell’approccio lo si vede bene oggi al tempo degli altrettanto anacronistici navigator. Il vero capolavoro fu l’esperienza nel Governo Ciampi da ministro del Lavoro, artefice della stagione della concertazione. Una convergenza di sensibilità e saperi che portò, in supplenza alla politica, il Paese fuori dall’inflazione, dall’ignominia di Tangentopoli e dal rischio di default. Un tempo da orlo del baratro, come è oggi questo della pandemia. Non a caso anche tra i sindacalisti c’è chi ora evoca l’esperimento e il metodo ciampiano (con Giugni ispiratore): è stata l’accortezza delle parti sociali, ad esempio, a evitare il conflitto tra salute e lavoro con la messa a punto dei protocolli per la ripartenza in sicurezza.
Concertazione o meno, non potrebbero non tornare in primo piano - come scrive Sciarra - i temi della produttività e della formazione. Due macro-argomenti in cui la fantasia e il sapere giugniano avrebbero ancora molto da dire: soprattutto perché sono temi regolati e dibattuti da anni, senza però veri risultati. E la controprova è nella produttività stagnante da oltre vent’anni e nella distanza tra le qualifiche chieste dalle imprese e quelle messe sul mercato dal nostro sistema di istruzione-formazione. Forse ciò che manca è quel riformismo improntato a «pragmatismo e cultura istituzionale» che suona ancora una volta rivoluzionario in questa nostra quotidianità scandita da spirito di fazione e dileggio istituzionale.
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