La via di casa: abitare l'umano, di Luigino Bruni
“Il gelsomino della casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste degli ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose e sul basso tetto del garage. Dentro di me però, in qualche luogo, esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre” (Etty Hillesum)
La sinfonia della vita, con al centro l’essere umano e le relazioni di reciprocità, s’interrompe bruscamente con l’arrivo del dolore e poi della morte. Nel capitolo tre della Genesi, e nei capitoli delle nostre vite.
I codici simbolici della narrazione, già abbondanti, qui diventano ricchissimi e potenti, alcuni presi in prestito e intrecciati con miti medio-orientali ancora più antichi. Molti significati simbolici li abbiamo persi per sempre perché troppo “lontani”; altri li abbiamo aggiunti noi durante i secoli, ricoprendo spesso con “stucchi” ideologici i tratti e i colori aurorali dell’affresco originario. Questi grandi testi ci parlano ancora “alla brezza del giorno” se, come i suoi protagonisti, ci mettiamo “nudi” di fronte alla loro essenzialità e ci lasciamo interrogare: <Adam, dove sei?>.
Il primo colpo di scena è l’arrivo del serpente, che rivolge la parola alla donna. Parlano dei frutti dell’<Albero della conoscenza del bene e del male>, quelli che Elohim aveva vietato all’Adam: <Non devi mangiarli, perché il giorno in cui te ne cibassi, tu certamente morirai> (2,17). In realtà ci troviamo di fronte non tanto a un divieto ma a un avvertimento, a una promessa: quei frutti l’umano non li può mangiare perché mangiandoli morirebbe. Il serpente confuta quella prima promessa, e ne formula una molto diversa: <Voi non morirete affatto. Anzi! Elohim sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi, diventerete come Elohim, conoscitori del bene e del male> (3,4-5). Il serpente termina qui il suo dialogo. Ma quelle sue parole erano state efficaci: la donna si fida della promessa del serpente, guarda diversamente l’albero, i suoi frutti le appaiono buoni, belli, desiderabili; ne mangia e ne offre all’uomo. I due non muoiono, si aprono i loro occhi e vedono diversamente, vergognandosi, la loro nudità. Il primo dato del testo sembra dunque smentire la promessa di Dio (<morirete>), e confermare quella del serpente (<si apriranno i vostri occhi>).
Il serpente viene subito chiamato il <più intelligente> degli animali creati (3,1). Era anch’esso parte di quella creazione bella e buona, una intelligenza che l’Adam conosceva perché gli aveva dato il nome. Non tutti gli usi delle intelligenze sono per la vita e per il bene. Siamo circondati da gente che usa gli abbondanti doni d’intelligenza per distruggere, evadere il fisco, sedurre e sfruttare i deboli, truffare, perfezionare le slot machine, migliorare l’efficienza delle mine anti-uomo. Di questa intelligenza sbagliata è piena la terra. Esiste l’intelligenza buona della vita, ma accanto a essa c’è anche l’intelligenza del serpente. Questa intelligenza diversa si manifesta come un discorso, un logos. Il serpente seduce e convince parlando, usando quindi diversamente quella parola che aveva creato il mondo, l’uomo, la donna, il serpente. Anche questa è la forza della parola, che come sa creare sa distruggere, sebbene la Parola che crea è più forte e profonda della parola che distrugge.
La storia è piena di parole creatrici, ma anche di parole che con la loro nuda forza hanno distrutto vite, reputazioni, imprese, matrimoni, indotto suicidi. Riuscire a distinguere le intelligenze del serpente da quelle buone della vita è arte fondamentale e difficilissima del vivere; ma l’albero della nostra vita fiorisce se siamo nelle condizioni sociali, etiche e spirituali di apprendere e perfezionare quest’arte. La storia delle persone e delle istituzioni è segnata da incontri decisivi con queste intelligenze diverse. Abbiamo tutti conosciuto persone “molto buone e molto belle” smarrire il filo d’oro della vita, solo perché non hanno saputo (o potuto) riconoscere l’intelligenza del serpente. Ho visto imprenditori perdersi non per mancanza di ordini o di profitti, ma per aver dato fiducia a una logica diversa da quella della vita, perché non hanno scoperto il serpente dietro le promesse di grandi guadagni e facili prestiti, o perché hanno seguito logiche e suggerimenti che hanno finito per distruggere la fiducia buona su cui poggiavano le loro imprese e le loro vite.
Dal “giorno” dell’incontro col serpente, l’intelligenza buona della vita e quella del serpente convivono l’una accanto all’altra, sono intrecciate tra di loro nel cuore di ogni persona, anche di quelle migliori. Si impara il mestiere del vivere imparando a riconoscere la presenza di questa intelligenza diversa innanzitutto dentro i nostri ragionamenti (è sempre una luce buia, che non genera vita ma morte), e solo in secondo momento in quelli degli altri. E poi facendo molta attenzione a non commettere l’errore, molto comune nei responsabili di comunità o di imprese, di considerare alcuni collaboratori come detentori sempre e comunque dell’intelligenza del serpente (e, quindi, da non ascoltare mai e da escludere), e altri come portatori sempre e comunque dell’intelligenza buona e saggia. L’intreccio delle due intelligenze attraversa invece tutti e tutto, ma – non dimentichiamolo mai – l’intelligenza della vita è più forte, vera, tenace, alla fine vincitrice.
Ma c’è ancora un ulteriore colpo di scena, che sembrerebbe persino dar ragione ad alcune parole del serpente: <Ecco, ora l’Adam è diventano come uno di noi, conoscendo il bene e il male> (3,22). L’uomo e la donna hanno perso per sempre l’innocenza dell’Eden e l’incanto della prima creazione; ma il testo ci suggerisce che, paradossalmente, hanno anche guadagnato qualcosa d’importante, perché sono entrati nell’età dell’etica (la conoscenza del bene e del male) e della responsabilità: devono iniziare a rispondere delle loro scelte (<Adam, dove sei?>, 3,9).
Ma allora è anche possibile dedurre da questo racconto della Genesi qualcosa d’importante, forse sorprendente. Una volta fuori dall’Eden, possiamo ritrovare l’interezza, l’armonia, l’unità del paradiso perduto, abitando con l’amore-dolore i luoghi fondamentali dell’umano: <la sofferenza nelle gravidanze>, <verso tuo marito ti spingerà la passione, ma egli vorrà dominare su di te> (3,16), <col sudore della faccia mangerai il pane>, <finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto> (3,17-19). Dal primo Eden siamo “usciti” per sempre, ma l’Adam non è morto; Elohim gli ha dato una seconda chance: la storia. E allora la vocazione dell’umanità non può più consistere in un tornare indietro verso quel primo Eden che non c’è più, ricercando magari una purezza e un’innocenza fuggendo dai luoghi più umani del dolore – la generazione dei figli, le relazioni tra pari, il lavoro, la morte. Possiamo cercare e ritrovare le armonie del primo giardino amando, con la buona intelligenza della vita, proprio i luoghi splendidi e dolorosi e dell’umano. Se così non fosse la storia sarebbe inganno, il mondo condanna. E invece la storia è cammino verso casa, dove ognuno porta con sé “in dote” il patrimonio di dolore-amore costruito lungo la strada. È questa la prima grande dignità dell’amore umano, delle famiglie, del lavoro, e anche del ritorno dell’Adam all’adamah. Un compito morale di ogni persona – e dell’umanità nel suo insieme – diventa allora cercare di ridurre il dolore nel mondo.
Ci possiamo salvare generando bambini (e facendoli diventare grandi), innamorandoci, rispettandoci nella reciprocità, lavorando, e reimparando in ogni generazione a morire – la nostra deve ancora farlo. Ci siamo salvati tutti i giorni con la fatica-amore dei travagli: quello dei figli, quello del lavoro, e l’ultimo grande travaglio. Sono queste le vie che abbiamo per poter intravvedere una nuova terra-giardino: nuove Eva e nuovi Adamo, alla brezza di ogni giorno.
fonte: Avvenire, 09.03.2014
http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/la-via-di-casa-abitare-lumano, 09.03.2014