La resa dei conti, di Emanuele Carrieri
“Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo”. Così tratteggiava nei Sepolcri e non senza una punta di disprezzo, Ugo Foscolo, agli albori dell’Ottocento, la classe dirigente della sua epoca. Ma nel nostro tempo, a distanza di duecento e passa anni, che cos’è la classe dirigente di un paese? O meglio, che cosa dovrebbe essere la classe dirigente di un paese? Già, perché forse è più opportuno adoperare i verbi al condizionale. Una definizione, più o meno presentabile, reciterebbe che è quella categoria della società che, per cultura e formazione intellettuale, per patrimonio di valori e idee, per consapevolezza dell’appartenenza a una comunità, è in grado di esercitare un ruolo di guida intellettuale e morale. È proprio per questo presupposto che, in condizioni normali, quando la vita di una società non presenta complessi rimescolamenti, alla classe dirigente viene attribuito anche il potere decisionale e politico.
Per farla breve, di una classe dirigente, in qualche maniera, ci si dovrebbe poter fidare, presupponendo che si prodighi realmente per il bene comune. È semplice comprendere che questi insufficienti e scarsi elementi hanno davvero poco o nulla a che fare con la vicenda della Regione Lazio, infognata in una clamorosa figuraccia di dimensioni epocali e planetarie che verrebbe solo appena attenuata da una collettiva defenestrazione politica, non solo regionale ma anche nazionale.
È ovvio che non si può essere molto esigenti o addirittura incontentabili, ma non si può non chiedere a un gruppo sociale dirigente, tanto per fare un esempio, un po’ di buona educazione, e invece fra banchetti luculliani e balletti – si fa per dire – in maschera, siamo arrivati davanti alla più memorabile delle abbuffate. Nessuno, neanche il più moralista degli elettori, può pretendere che gli appartenenti alla classe dirigente del paese abbiano frequentato le scuole dei gesuiti o che conoscano alla perfezione il Galateo di monsignor Giovanni Della Casa o che sappiano a menadito le rigidissime norme del cerimoniale di corte spagnolo, diffuse da Carlo VI d’Asburgo in Europa, ma “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori” merita indubbiamente qualcosa di più e di meglio.
Un altro elemento, estremamente importante, che contraddistingue una classe dirigente degna di tale nome e del dovuto (non di più!) rispetto è la assunzione di responsabilità davanti agli errori. Scusate, ho sbagliato, chiedo scusa pure al canarino canterino e al pesciolino rosso, me ne vado, torno a casa (quale?), torno alle cose della famiglia (la prima o l’altra?), torno al lavoro (ma io un lavoro ce l’ho?), ogni mattina compro il giornale e porto il cagnolino a passeggio ai giardinetti pubblici. Mai. Tutti invocano il pronto soccorso di una “geniale” invenzione della nostra classe dirigente e cioè l’autosospensione. Ma che cosa significa con esattezza?
È una vera e propria presa in giro dell’intero universo mondo: vuol dire, molto semplicemente, che quando ti colgono sul fatto, con le classiche mani nel sacco, prima che qualcuno ti mandi via in cattivo modo (avvenimento, d’altra parte, molto raro), basta dichiarare l’autosospensione e si diventa istantaneamente inattaccabili. È una specie di protezione che assicura, nel tempo che occorre per accertamenti e indagini, continuità di stipendio e protezione dalle dimissioni autentiche.
Sono mesi e mesi che, con il governo Monti, considerevoli fette di ceto politico parla di sospensione della democrazia solo perché Monti non appartiene alla casta dei votati. La verità è esattamente l’opposto. Quelli sospesi, nei loro poteri di controllo e revoca prescritti dalla democrazia, sono i cittadini e a escluderli dai loro diritti è stata proprio questa classe dirigente o sedicente tale. Ma sopraggiunge sempre il momento della resa dei conti e forse manca veramente poco.
Fonte: "Nuovo Dialogo" n. 27 del 5 ottobre 2012