Fake news, di Francesco Palmieri
Altre suggestioni, in prospettiva più rischiose e incisive delle fake news, agitano l’atmosfera congestionata ma fluttuante del mondo digitale. Sono le fairy news, notizie incantatrici a prova di smentita e di sanzione. Rappresentano una sfida che coinvolgerà sempre più agenzie d’intelligence, istituzioni, aziende e folle anonime del web. È lo scontro su livelli immaginali fra verità teoriche e realtà efficienti, dalla cui opposizione traggono linfa credenze e stili collettivi che spesso sono solo accattivanti spettri. Strumento decisivo non sarà il fact-checking ma la ‘contro-suggestione’.
La “bufala”, creatura più cacciata del web, vede assottigliarsi ogni giorno che passa i propri territori di pascolo. Strumenti sempre più sofisticati e sanzioni sempre più fitte rendono problematica, fortunatamente, la persistenza e l’efficacia delle fake news. Netto è d’altronde il confine, almeno nell’umano terreno delle notizie, tra il vero e il falso. La buona volontà e l’uso accorto degli algoritmi consentono un’efficace vigilanza, anche se i suoi margini di applicazione sono stati e resteranno oggetto di dibattito.
Molto più insidiosa appare un’altra tipologia di notizie, per cui abbiamo coniato il termine di fairy news. Notizie ‘fatate’ o ‘incantatrici’, che al pari delle fake news sono da sempre esistite ma la cui pervasività e il cui potenziale effetto risultano moltiplicati dagli spazi della comunicazione digitale. Più insidiosa, abbiamo detto, questa tipologia di notizie perché sfugge alla dicotomia vero – falso. Si colloca invece all’indefinibile confine tra il reale e l’irreale, un tratto liminale frastagliato e smarginato, che insiste su una mappa avvolta nella nebbia. Quella delle suggestioni umane e della loro irrazionalità, delle emozioni e dei presagi, delle credenze e della loro capacità di contagio.
Se le fake news operano – o sono operate – sulla deformazione o falsificazione della verità, le fairy news vengono agite per la formazione di una presunta realtà, contro cui è inutile opporre qualunque obiezione di falso. Non servirebbe. L’approccio del fact-checking, nel campo nebuloso delle notizie ‘incantatrici’, si rivela del tutto inadeguato. Molti anni prima di internet, trattando delle mode culturali, lo storico delle religioni Mircea Eliade lo aveva chiarito benissimo: «Il fatto che una teoria o una filosofia diventino popolari, à la mode, en vogue, non implica né un loro particolare valore né l’esserne sprovviste. Uno degli aspetti affascinanti delle ‘mode culturali’ è l’irrilevanza della verità o falsità sia dei fatti trattati che della loro interpretazione. Non esiste critica capace di demolire una moda» . «Irrilevanza della verità o falsità»: questa è la cifra tipica delle fairy news. Già questa semplice enunciazione promette un’intrigante sfida per l’intelligence, decisamente più complessa di quella che finora l’ha impegnata sul terreno delle fake news. È per questa ragione che per l’individuazione delle ‘notizie fiabesche’, ancorché il loro attuale raggio d’azione coincida con quello globale e istantaneo del web, bisogna partire da più lontano. Di irrilevanza tra il vero e il falso Eliade scriveva nel 1976; appena tre anni dopo, quella intuizione veniva corroborata nel celebre Rapporto sul sapere di Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna: «Possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni». La funzione narrativa, perduti «i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli e i grandi fini», notava il filosofo francese, «si disperde in una nebulosa di elementi linguistici, narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis» . Premesse necessarie, quelle appena esposte, per illustrare con un certo margine di precisione cosa siano le fairy news: sono prima di tutto notizie che, malgrado la sospettabile, evidente o addirittura dichiarata inverificabilità sono accettate e operano con gli effetti di una realtà nella comunità presso cui si sono diffuse.
Seconda caratteristica: l’efficacia del loro funzionamento prescinde dall’eterogeneità di una community e dalla sua consistenza numerica, ed è contrassegnata dalla loro sopravvivenza – o addirittura dal rafforzamento – quando sono individuate, al contrario delle fake news la cui scoperta comporta assieme alla smentita un annichilimento.
Terza caratteristica: l’impossibilità di essere oggetto di sanzione. Nell’epoca delle grandi narrazioni, le fairy news avrebbero esposto il diffusore a rischi anche gravi: mettiamo l’esempio di chi avesse asserito l’esistenza di silfidi e coboldi tra il Cinque e il Seicento in molte regioni dell’Europa cristiana. Ora, nel mondo della postmodernità nessuno vuole o può innalzare un rogo, elevare una multa o sospendere l’account di chi posti un’affermazione del genere. Non più di quanto si possa sanzionare – perlomeno nei Paesi democratici – chi propugna una credenza negli angeli, nei santi, nelle apparizioni mariane, nei kami dello shintoismo o nei marziani. Semplicemente non esiste un’autorità giuridica, morale o religiosa, né un’inappellabile istituzione laica che possano conferire la bollinatura o sancire il divieto a questo genere di notizie. Ne risulta che le fairy news, a differenza delle fake braccate e circoscrivibili, godono di un ampio margine operativo che incide sulla sensibilità sociale, sulle convinzioni, sulle tendenze emotive di gruppi trasversali di utenti del web e di disparate fasce culturali e sociali. Non esiste, per tali notizie, possibilità di smentita né il confronto può essere condotto sul piano della verifica fattuale: l’irrilevanza della verità, cui si sostituisce non la falsità ma ‘una’ realtà, mette fuori gioco da subito queste chance.
La Modernità liquida evocata da Zygmunt Bauman, oltre alle grandi narrazioni, ha abbattuto i muri e le rigidità che recingevano la circolazione delle notizie ‘incantatrici’, favorite per loro stessa natura dalla libertà di fluttuazione e dall’inconsistenza dei confini. Svelte e leggere come la fatina vittoriana di Peter Pan o come le fate volanti tibetane, le fairy news approfittano del web per veicolare i propri messaggi: «La quasi istantaneità dell’epoca software inaugura la svalutazione dello spazio», che risulta sempre più irrilevante: «Lo spazio», come nota Bauman, «non pone più limiti all’azione e alle sue conseguenze, e conta poco o nulla; ha perso il proprio ‘valore strategico’, come direbbero gli esperti militari».
La produzione di realtà prevale sulla produzione di verità, che è assai più faticosa, discutibile e eventualmente sanzionabile. La produzione di realtà si alleggerisce in una liquidità che favorisce le sue seduzioni luciferine; la fabbricazione di verità vive invece la modernità in modo più pesante, per la presenza o l’introduzione di paletti e verifiche e per l’intrusione delle istituzioni nazionali e internazionali, che sono al contrario impotenti, disarticolate o disinteressate rispetto alle suggestioni di tipo ‘religioso’ delle fairy news. Che i gatti e i cani abbiano sentimenti sempre più umanizzati, e che milioni di utenti del web asseverino in misura crescente simili fairy news con parametri valevoli, negli scorsi decenni, soltanto per i bambini dopo la visione di un cartoon di Walt Disney; che questa mutata – e impropria – percezione abbia effetti imponenti sotto i profili spirituali, etici ed economici, non è affare che compete agli Stati, alle amministrazioni locali o agli organismi sovranazionali. Eppure gli effetti che ne derivano, e ne deriveranno, modificano gli orientamenti di consumo e probabilmente anche quelli elettorali, giusto per citarne due, perché testimoniano una realtà più efficiente dell’astratta verità etologica.
Smentire non vale. Si può prevalere sulle fairy news solo con altre fairy news, cioè con più incantevoli racconti alternativi. Non con dimostrazioni esatte. Nel confronto tra verità e realtà, la seconda risulta favorita soprattutto negli anni della comunicazione digitale, per l’«immane sconvolgimento psichico» dovuto alla confluenza «fra il digitale e il digitabile»: «Il sapere – sostiene Roberto Calasso – assume la forma di una singola enciclopedia, in perenne, proliferante espansione e in linea di principio digitabile. Enciclopedia che giustappone informazioni impeccabilmente veritiere e informazioni infondate, ugualmente accessibili e sullo stesso piano. Ciò che è digitabile appartiene a ciò che è familiare, perciò trattabile con affettuosa noncuranza. Il sapere perde prestigio e appare come fatto di voci, nel senso di voci di un’enciclopedia e di voci vaganti, incontrollabili, boatos» . Predomina nella fase attuale, tessuta nella leggerezza e nell’istantanea trasportabilità di immagini e notizie, un’energia di tipo luciferino o – se si preferisce – di carattere mercuriale. Calasso vi legge una «inflazione di Hermes, che al tempo stesso mutila il profilo del dio, cancellando la sua funzione di psicopompo e di guida al regno di ogni invisibile. Ciò che sussiste è un Hermes beffardo e truffaldino, prodigo di doni avvelenati». Se spogliato della legittima sacralità di un dio, o se questa viene strumentalizzata per fini di natura pragmatica, Hermes resta semplicemente un signore dei ladri, cioè di quelle creature – per dirla con l’avventuriera Moll Flanders, protagonista dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe – «che riconoscono negli errori degli altri un vantaggio per sé». Ciò è sufficiente a comprendere l’enorme potenziale di rischio delle fairy news, basato sulla loro seducente produzione di realtà e sul sostanziale svincolamento dai canoni della dicotomia verità − falsità.
Le agenzie d’intelligence o i colossi digitali come Facebook, per non parlare dei singoli utenti, sono attrezzati alla gestione delle fairy news? Ne intercettano i percorsi? Sono in grado di evitare o contrastare le manipolazioni operate dai molteplici, costanti inganni e incanti di queste ‘voci vaganti’? La risposta è forzatamente dubitativa. Nel migliore dei casi. L’impressione è piuttosto che ci sia stata una sottovalutazione delle ‘realtà’ e una sopravvalutazione delle ‘verità’. Ha notato l’uomo d’affari Roger McNamee, nel suo recente Zucked, che Facebook profitta delle «emozioni del nostro ‘cervello rettile’, come la paura o la rabbia», perché «producono una reazione più uniforme e diventano più virali». Ed è presumibilmente vero che «quando gli utenti sono arrabbiati, consumano e condividono più contenuti. Se rimangono calmi e imparziali hanno relativamente poco valore per Facebook, che fa di tutto per attivare il cervello rettile» .
Si tratta di un allarme evidentemente giustificato, ma assecondando l’argomentazione di McNamee potrebbe essere addirittura fuorviante. Prima di tutto non è il ‘cervello rettile’, semmai quello ‘mammifero’ a essere coinvolto nelle summenzionate interazioni. In secondo luogo, il mero coinvolgimento emozionale senza un’elaborazione successiva di tipo narrativo, o fiabesco, risulterebbe scarsamente rilevante poiché sarebbe reversibile nello spazio di un istante. I critici di Facebook dovrebbero focalizzare verso l’alto l’attenzione anziché in basso, accantonando l’approccio pragmatico e positivista che consegna erroneamente la palla al ‘cervello rettile’ (il quale tutt’al più si occupa della fame, della temperatura corporea e del sonno). Le fairy news operano infatti sui piani della sensibilità e dell’elevazione umana (vera o presunta, ribadiamo, qui non importa), sul livello immaginale piuttosto che sulla ‘pancia’, allo scopo di indurre una modificazione di credenze e di comportamenti che sia il più stabile ed efficace possibile. Per comprenderne il potenziale, bisogna fare frutto della lezione narrativa lasciata da Edwin Abbott Abbott nel suo fantascientifico romanzo Flatland. Gli abitanti di un paese bidimensionale rifiutano o non riescono a capire che il mondo abbia una terza dimensione. Il monarca di Flatland «was persuaded that the straight line which he called his kingdom, and in which he passed his existence, constituted the whole of the world, and indeed the whole of Space».
Parimenti gli studiosi del web dovrebbero accettare – al di là delle spiegazioni al ribasso – l’esistenza operativa di una dimensione ulteriore rispetto a quella della verità, però non riducibile al mondo viscerale degli gnomi quanto a quello aereo delle fate. È tempo di sviluppare una visione che paradossalmente oggi intuirebbero con minore fatica certi studiosi dell’Ottocento: primo fra tutti Gustave Le Bon, ricordato per il celeberrimo testo Psicologia delle folle del 1895. Sovente basta aggiungere al sostantivo ‘piazza’ l’aggettivo ‘virtuale’ per constatare la freschezza delle sue asserzioni, come quelle relative agli strumenti di penetrazione delle idee e delle credenze ‘nell’animo delle folle’: affermazione, ripetizione, contagio. L’angusto confine delle fake news, e del parametro di ‘verità’ da cui siamo partiti, era già stato scavalcato da Le Bon: «L’affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un’idea nello spirito delle folle. Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità». Se oggi c’è una differenza sostanziale, consta probabilmente nella maggiore vulnerabilità dell’utente – ovvero della ‘folla’ – rispetto al suo corrispondente del passato. L’assai più rapida se non istantanea circolazione e mole delle informazioni abbatte la ‘soglia immunitaria’ di cui comunque era dotato l’uomo medio fino a un’epoca molto recente.
È una debolezza che dalla virtualità deborda nella vita, come ha rilevato tra gli altri il filosofo Byung-Chul Han, fra i più acuti osservatori della internet society. L’Information Fatigue Syndrome (Ifs), determinata da un eccesso di informazioni, si configura come una vera e propria patologia psichica ormai generalizzata: «Uno dei principali sintomi dell’Ifs è la paralisi della capacità di analisi: proprio la facoltà analitica è ciò che determina il pensiero». Un aumento di informazioni «non porta necessariamente a decisioni migliori», al contrario «atrofizza proprio la facoltà superiore di giudizio. Spesso un “meno” nell’informazione produce un “più”: la negatività dell’omettere e del dimenticare è produttiva». E ancora: «Quanta più informazione viene liberata, tanto più il mondo diventa meno chiaro e spettrale».
Si tratta di uno scenario in cui il ricorso alle fake news si profilerà quale rischio inutile o troppo faticoso per l’ottenimento di obiettivi che risultano invece più facilmente raggiungibili attraverso l’incanto e l’inganno di una comunicazione viaggiante sui canali dell’immaginazione e dei fantasmi. La sua ricezione nei cervelli affaticati dal bombardamento digitale, dotati di anticorpi vieppiù deboli, risulta conseguibile con l’efficacia di una fiaba tremenda e affascinante all’interno di una realtà che è stata momentaneamente scelta e comminata. Una violenta, imprevedibile accelerazione delle fairy news è stata determinata dalla pandemia di Covid-19 nel 2020, favorita sia dalla sua estensione globale sia dalla contraddittorietà della comunicazione istituzionale (Oms, Commissione europea, governi nazionali). Rispetto all’incontrollabile protagonismo dei social network, sempre più affaticata si rivela la rincorsa alle mere fake news, tarata sulla polarizzazione tra verità e falsità (quest’ultima assegnata, con termine deliberatamente improprio, al campo dei ‘negazionisti’).
Intanto, come ha rilevato Bernard-Henri Lévy, le folle hanno riconosciuto al coronavirus la paternità di un messaggio morale impartito all’umanità per il suo scarso rispetto della natura, e «da questo pensiero magico e primitivo, nessuno è rimasto completamente indenne» . La fairy news di un ‘dio virus’ etico e pensante richiama la clamorosa regressione della coscienza collettiva a quella ‘orda originaria’ descritta anche da Freud, nella sua elaborazione delle tesi di Le Bon in chiave psicoanalitica. Qualcuno a mente fredda rifletterà, finito il Covid-19, anche sulla definizione di ‘infezione psichica’ tra gli individui di una massa, che è più potente di ogni veleno naturale.
http://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista65.nsf/ServNavig/65-29.pdf/$File/65-29.pdf?openElement