E il divorzio non fu più all'italiana, di Simonetta Fiori
«Quando è cominciata la battaglia per il divorzio, io dirigevo l’Avvenire, il quotidiano ufficiale dei vescovi: sarebbe stato assurdo un mio intervento a favore. Ma all’epoca del referendum non mi tirai indietro e organizzai tra i cattolici la campagna per il no: non potevamo tornare a categorie del passato, superate da un nuovo modo di concepire la fede cristiana».
Lei nel 1974 non era più alla guida dell’Avvenire.
«Mi ero dimesso nel 1967 in dissenso da Paolo VI sulla visione del Concilio Vaticano II. Lavoravo come giornalista televisivo in Rai e anche il mestiere mi imponeva di capire le trasformazioni».
Perché fece la battaglia contro l’abrogazione del divorzio? Da cattolico lei crede nella indissolubilità del matrimonio.
«Sì, ci credo ancora. Ma allora si trattò di difendere una maturità raggiunta non solo nella politica e nella legislazione italiana, ma nel modo di concepire il rapporto tra Stato e Chiesa. Il primo passaggio fondamentale riguardò l’uscita dal regime di cristianità, ossia da una eredità secolare secondo la quale la società occidentale doveva essere conforme al modello della Chiesa».
Con il divorzio cominciava il processo di secolarizzazione della società italiana?
«In realtà era cominciato già prima con il Concilio ecumenico Vaticano II. Il primo a dirlo in modo chiaro è stato l’anno scorso papa Francesco: non siamo più in un regime di cristianità. Allora era un processo appena cominciato di cui solo oggi possiamo vedere tutte le conseguenze».
Nella battaglia per il divorzio entrò in campo anche un modo diverso di intendere la fede cristiana.
«Non si potevano mettere sulle spalle della povera gente pesi che i preti non sarebbero stati capaci di sopportare neppure in minima parte. Per me è esemplare la posizione di Carlo Carretto, piccolo fratello di Gesù che aveva passato in preghiera la notte prima del referendum. E al mattino decise di votare "No" all’abrogazione perché Dio non poteva volere che si infierisse su poveri uomini emigrati, buttati nelle baracche in Svizzera e in Germania, condannati per anni e anni a stare lontani dalle proprie spose. Quel suo Dio misericordioso non poteva stare dalla parte della legge invece che dell’amore. Non poteva volere il successo politico della Chiesa al prezzo della perdita dell’amore per l’uomo».
Ma questa era una posizione eversiva rispetto ai dogmi dell’epoca.
«Scegliemmo la strada dell’amore e della misericordia. La stessa che ha scelto papa Francesco, il quale rivendica il diritto alla felicità delle persone. E per questo viene esecrato».
Il vostro fu un atto di rottura molto forte.
«Padre Ernesto Balducci aveva proposto l’astensione. Ma io ritenevo che occorresse testimoniare la verità fino in fondo. Raccogliemmo le prime cento firme, quelle dei cattolici del No, e poi preparammo un documento che ebbe grandissimo successo presso la base cattolica».
Foste scomunicati?
«No, non si arrivò a quel punto. Ma certo Paolo VI esercitò un ministero di rimprovero molto serio».
Lei fece campagna elettorale?
«Sì, fu un’avventura molto bella. Mi ricordo una volta a Bari lo scontro con Amintore Fanfani, leader degli antidivorzisti: io al Teatro Petruzzelli, lui al teatro Comunale. Penso che là sia cominciata la fine della Democrazia Cristiana. Con la battaglia sul divorzio entrò in crisi quel principio dogmatico che era l’unità politica dei cattolici. Una fedeltà alla Dc richiesta dalla Chiesa sotto vincolo di obbedienza. La rottura sarebbe stata sancita nel 1976 con la candidatura di un gruppo di cattolici con il Pci, nelle file della Sinistra Indipendente: cadeva in questo modo il tabù del comunismo come male assoluto. Ma la vera incubatrice della novità italiana, incluso il compromesso storico, fu la battaglia per il divorzio».
Lei ha detto prima che crede ancora nell’indissolubilità del matrimonio.
«Ho vissuto per quarant’anni con la mia prima moglie. E dopo la sua scomparsa ho sposato Agata. Si vede che non riesco a stare senza una donna. In modo indissolubile».
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