Diritti verso la Felicità, di Raffaella Ardito
“L’uomo ha diritto alla felicità”. È quanto afferma l’art. n°1 della Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776 voluto da Jefferson e Franklin, uomini illuminati da un intelligente ardore filosofico e civico. Essa, la felicità, è un fine alto, giusto e onesto, comune, una tensione della storia e delle storie individuali. Felicità si coniuga con libertà, vita, rispetto, solidarietà, benessere, amore, speranza, democrazia, dignità, giustizia, nel riconoscere e dare meriti, nella verità. Sono quei valori che realizzati ci rendono migliori e più collaborativi con gli uomini e il mondo.
È il destino comune di un popolo che non sceglie solo un principio edonistico sul quale fondare la sua nazione, ma si libera e si vota alla ricerca della felicità per ciascuno e per tutti.
Eppure questo diritto non è stato per gli USA il nuovo metro per indicare una “coesione sociale” che tendesse al globale, ma ha quasi autorizzato a dar sfogo a ogni istinto egoistico per ricercare la felicità, provocando l’infelicità di altri popoli (sia dentro che fuori i confini nazionali) e impedendo loro l’autodeterminazione, imponendo un neoliberismo che ha reso l’homo prima oeconomicus e poi consumens.
La felicità, dunque, più di altri diritti, da virtù civile può trasformarsi in principio egoistico, soprattutto se più che valore diventa culto.
Il fine di assicurare “la felicità della Nazione”, sancito negli USA come vagito di una nuova fratellanza, ha come “patria” proprio l’Italia. Coniato e ispirato dalla coscienza europea e italiana di Gaetano Filangieri, padre della Rivoluzione napoletana, è inserito anche, e da prima, nella carta costituzionale approvata dai rivoluzionari corsi che lottavano per l’indipendenza dalla Repubblica di Genova (1768) e nel 1778 nel progetto costituzionale preparato dal granduca di Toscana secondo cui “in una ben composta società tutti e qualunque membro componente della medesima hanno egual diritto alla felicità”. Lo ritroviamo anche nell'articolo 13 della Costituzione giapponese (1946): “Tutte le persone che costituiscono il popolo saranno rispettate come individui. Il loro diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, entro i limiti del benessere pubblico, costituiranno l’obiettivo supremo dei legislatori e degli altri organi responsabili del governo”.
Ai legislatori e ai governi spetta il compito di rimuovere le cause principali dell’infelicità, sforzandosi di garantire i fondamentali diritti umani e, dunque, la felicità, condizione principalmente intima e personale. Come Filangieri e molti illuministi, i giapponesi credono che la felicità possa arrivare dall’esterno, mentre secondo altri, soprattutto i romantici, essa è possibile solo nell’individuo, sconfiggendo la conflittualità dell’animo umano.
Anche l’Europa vuole assumersi, in questo delicato frangente storico, la responsabilità di “legiferare la felicità” e ha inteso farlo attraverso la penna dei cittadini delle giovani generazioni mondiali chiamate a raccontare il “diritto alla felicità come diritto inalienabile”. Da settembre 2012 il concorso di idee “Giovani nel mondo” avvierà il processo di inserimento nella Costituzione europea di questo principio senza tempo e molto sentito.
Il “diritto alla felicità”, diritto naturale, razionale, irrinunciabile e inviolabile dell’umanità, è la nuova frontiera dell’impegno Politico e per essere realizzato pienamente occorre che ogni altro diritto sia soddisfatto. Insomma, esso rappresenta il pieno sviluppo della persona umana.
Sarà pure un’illusione, una tensione dell’anima umana che si concretizza in istanti, ma il diritto alla felicità resta un sogno nobile, la speranza dell’umanità di diventare un giorno una specie efficiente, giusta, felice.
Si può pretendere la felicità? Non so, ma spero che tutti imparino ad avere il coraggio della felicità.
Raffaella Ardito [redazione CuF]