C’erano una volta gli oppressi, di Angela Donatella Rega
Un mio vecchio libro ingiallito trovato nella libreria e sfogliato per ritrovarne i passaggi salienti, “La pedagogia degli oppressi”, di Paulo Freire, mi ha fatto fare un balzo indietro nel tempo a quando, cinquant’anni fa, nutrivo tante speranze nel futuro. Scritto nel 1968 a Santiago del Cile, dove l’autore brasiliano era in esilio, il saggio entra nel merito della relazione oppresso/oppressore e della coscientizzazione degli oppressi, seguita dal superamento della paura di essere liberi e da una formativa analisi critica che possa impedire all’oppresso di diventare a sua volta un oppressore.
Le riflessioni che possono trarre spunto da questi concetti sono tantissime. La paura di essere liberi, per esempio, ci dà ragione di come la fragilità, con il bisogno di figure forti di riferimento, faccia spesso sfociare la nostra società in forme di totalitarismo in cui i sottomessi, colludendo con il potere, possono farsene cani da guardia per opprimere chi fragile non è ma può essere piegato con la forza o con atti di violenza. La storia si ripete dopo le rivoluzioni che capovolgono il potere dittatoriale per sostituirsi ad esso. Ne abbiamo avuto molti esempi nella Storia.
Ne deduciamo ovviamente che, una democrazia rappresentativa in una repubblica parlamentare, richiede molta maturità da parte sia del popolo che dei suoi rappresentanti regolarmente eletti.
Ma torniamo agli oppressi. Chi sono oggi gli oppressi? Possiamo, come dice il Papa, vederli passare sugli schermi del nostro computer collegato alla rete, ce ne arrivano le immagini e, se vogliamo approfondire, anche le notizie. Le vittime di fame, guerre, violenze, tra cui milioni di bambini, le vittime di repressione della libertà di opinione, di pensiero e di culto, possono sfilare sul nostro schermo, se solo le cerchiamo.
E gli oppressori, dove sono?
Inutile elencare chi per interesse provoca e mantiene o ignora tali orrori, perché siamo perspicaci e sappiamo che la politica economica mondiale si basa sulla sperequazione e sull’ingiustizia.
E tutti noi corresponsabili spesso inconsapevoli, perché non facciamo pressione perché questa situazione cambi?
Perché viviamo in paradisi ed inferni artificiali. Niente di speciale, ma quel tanto che basta a farci perdere di vista la nostra disumanizzazione (anche di questa parla Freire nel suo libro di cinquant’anni fa). Televisione, videogiochi, cene, concerti, sport, e tanto lavoro per lo più precario, per sopravvivere, sempre più lavoro e sempre meno risorse economiche, oppure siamo disoccupati o inoccupati e perdiamo, ogni giorno che passa, diritti sanciti costituzionalmente. Noi del mondo fortunato subiamo una serie di piccole misurate continue ingiustizie che, prese a piccole dosi, ci fanno procedere leggermente ubriachi, come se il problema o i problemi non ci riguardassero.
Ma nel frattempo anche qui cominciamo a lasciarci dietro vittime, magari di cassa integrazione o di ignoranza. Ecco, di cassa integrazione o di ignoranza, però, non si muore, si patisce soltanto, tutto a piccole dosi. E tutto passa nell’indifferenza. Il figlio dell’operaio o, meglio, del cassaintegrato, non farà più il dottore (cara Contessa).
Cosa fare allora?
Ci conviene accorgerci degli oppressi della porta accanto come di quelli lontani che ancora oggi muoiono di stenti e di violenza. Ci conviene ritagliarci un po’ di tempo per pensare e per impegnarci anche in mezzo a venti di guerra ed a guerre che consideriamo eventi straordinari per la gravità delle conseguenze tangibili, ma rispondono alla stessa logica delle ingiustizie che avvengono ogni giorno in tempo di “pace”.