Povertà e impegno, di Rocco D'Ambrosio
Debellare la povertà - Banning the poverty, come dice la campagna che sosteniamo - può essere, a seconda dei casi, una sfida, una provocazione, un impegno, un progetto, una favola o un’utopia.
Fiumi di analisi dicono che è possibile, se non totalmente, è possibile avviarci.
“La povertà – scrive il manifesto della campagna - non è un fatto di natura, inevitabile come la pioggia, ma è il risultato di processi sociali, culturali, economici e politici. Un’economia ingiusta e una società ineguale comportano la creazione dei fattori strutturali all’origine dei processi di impoverimento, come dimostra l’aumento scandaloso dei poveri in Italia.
Non si nasce poveri ma si diventa impoveriti! Per questo occorre non limitarsi a curare i sintomi o gli aspetti dolorosi della povertà, ma è necessario intervenire sulle cause strutturali dell’impoverimento” (Cf. www.banningpoverty.org).
Per noi, che ci occupiamo di formazione politica, questo è il primo e fondamentale punto: capire e aiutare a capire la povertà come risultato di processi sociali, culturali, economici e politici.
Parlare di risultato vuol dire parlare di responsabilità personali, sociali, politiche, economiche, culturali ed ecclesiali nel rassegnarci o, ancor peggio, nell’ampliare le sacche di povertà.
Qui mi soffermo, in modo particolare, sulle responsabilità personali.
Specie in termini di risorse e di messaggi diffusi, non si può ignorare quanto danno fanno ai poveri alcuni discorsi e atteggiamenti di chiusura al problema, fatti da alcuni responsabili di comunità cattoliche, da una parte, e di leader politici, dall’altra.
Chi è disoccupato, chi proviene da paesi non comunitari, chi non riesce ad arrivare alla fine del mese con il suo salario, chi vive forme di emarginazione morale e materiale, chi è segnato dal disagio, chi è oppresso dal racket o dall’usura, fa molta, ma molta, fatica a cogliere i nostri distinguo su tipi di povertà, ruoli della Chiesa e ruoli dei servizi sociali, povertà spirituale, povertà materiale, promozione umana e integrazione e così via.
Chi sta male vuole essere aiutato ed io, noi, forse spesso non lo facciamo o la facciamo poco. Per tanti motivi.
Debellare la povertà vuol dire anche (non solo) costruire rete di solidarietà sempre più forti ed efficaci.
Dedichiamo questo numero a Luciano Tavazza, che ci ha insegnato con la vita e le parole quanto è importante qualificare il volontariato formando uomini e donne autenticamente solidali.
Ci riferiamo a quanto espresso nella nostra Carta Costituzionale: essa parla di “dovere inderogabile di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).
Ci riferiamo, per coloro che credono nel Vangelo, alla solidarietà, intesa come un vincolo d’interdipendenza, un insieme di legami morali, affettivi, sociali che uniscono il singolo alla società di cui fa parte.
Scrive il Vangelo “un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione” (Lc.10,29-37). Ma forse diversi cristiani non hanno più tenerezza e compassione per gli altri, tantomeno per i poveri (punto fondamentale del nuovo papa).
Per tutti, credenti e laici, può aiutare il monito forte e chiaro di Primo Mazzolari: “Per questo il mio occhio è sempre rivolto ai vasi colmi e pronto a concludere che sono in credito, che posso anche chiedere, portar via, fare la rivoluzione...
C’è da aver paura della gente che fa la rivoluzione con animo benestante! Son ingordi che vogliono mangiar ancora, mangiar sempre, null’altro che mangiare. Chi ha poca carità vede pochi poveri: chi ha molta carità vede molti poveri: chi non ha nessuna carità non vede nessuno”.