L’opera dell’uomo, di Giuseppe Ferrara
Nascita e morte sono due passaggi che, nel mondo occidentale tecnologicamente avanzato, sono sempre più medicalizzati.
La medicina consente oggi di modificare la naturale evoluzione di molte malattie e le tecniche rianimatorie e di nutrizione consentono di mantenere in vita molti pazienti anche per mesi o anni. Il tecnicismo trionfante, la concezione organicistica della medicina dove i medici sono curatori di organi e non di persone, i modelli di vita materialistici ed edonistici impongo una riflessione sulla vita e sulla morte.
È diffuso, anche tra i medici, un atteggiamento culturale che considera la morte come un insuccesso terapeutico. Infatti, la medicina consente oggi di modificare con la ventilazione meccanica, la circolazione assistita, la nutrizione parenterale totale ecc., non solo la fase terminale della vita, ma permette la sopravvivenza di molte persone che in un recente passato non avrebbero neanche condotto una vita normale; pensiamo alle possibilità offerte dai trapianti, dall’emodialisi, dalla chirurgia e da terapie mediche che curano ad esempio il diabete, l’ipertensione, molti tumori, ecc., malattie che in un recente passato compromettevano la qualità della vita e l’accorciavano.
Basti pensare che nel 1861 la vita media era di 30 anni.
L’aspirazione della scienza, e della medicina in particolare, è stata da sempre il superamento del naturale.
Ne conseguono il rifiuto della morte e l’accanimento terapeutico, vale a dire il ricorso a trattamenti medici, a interventi chirurgici e anche a indagini diagnostiche inutili, inefficaci e sproporzionate agli obiettivi, che possono determinare ulteriori sofferenze al malato terminale, cioè al malato inguaribile, con prognosi infausta, per il quale non sono più possibili terapie eziologiche, ma che necessita di assistenza e di trattamenti sintomatici o palliativi.
Il tema del fine vita si è sviluppato soprattutto dopo i casi Welby ed Englaro e le conseguenti prese di posizione, a volte strumentali, su temi di bioetica che concernono il fine vita, l’eutanasia e il cosiddetto testamento biologico non hanno favorito una riflessione serena e approfondita.
È vero che l’uomo è mortale per natura, ma nel mondo occidentale tecnologicamente avanzato la morte è ancora del tutto un evento naturale? E la vita stessa è completamente una vita naturale?
Intuiamo agevolmente che molte vite non esisterebbero senza l’apporto della tecnologia medica (basti pensare ai trapiantati e ai dializzati).
Il concetto di morte biologica è in realtà spostato in avanti nel tempo. Non è vero che la natura fa il suo corso, nessuno è tanto folle da far fare il suo corso, ad esempio, a un diabetico; s’interferisce con la terapia. La sospensione dell’accanimento terapeutico è l’unico momento nel quale l’uomo e la sua morte sono riconsegnati alla natura.
Allora, il richiamo alla natura e alla morte naturale diventa solo un artificio etico.
Se ipotizzo di considerare superato il concetto di morte naturale, dal momento in cui nessuna vita ha, per fortuna, un decorso naturale (vale a dire un decorso senza diagnosi e terapie), è lecito e possibile negoziare il momento terminale della propria vita rifiutando l’accanimento terapeutico? La vita è un bene disponibile?
Senza entrare in problematiche di tipo religioso posso pensare che la vita sia indisponibile in quanto unica e socialmente condivisa. Questa condivisione esiste in fase di salute e di malattia, in fase di vita socialmente attiva o d’inattività, ma quando la vita perde la sua connotazione soggettiva e sociale, perde i suoi connotati, è possibile la negoziazione del fine vita?
Quando esiste una disconnessione tra essere come pura entità biologica ed esistere cosciente come entità sociale è giusto prolungare la vita in modo artificiale?
Il dibattito è aperto ed esiste un vuoto normativo, non ancora colmato, che deve tenere conto della laicità non come conflitto di valori, ma come convivenza di convinzioni.
La costituzione all’art. 32 oltre a tutelare la salute, vieta i trattamenti sanitari obbligatori se non per diposizione legge, quindi deve valere il diritto al rifiuto o all’interruzione dei trattamenti sanitari e tale diritto non può essere disatteso per legge perché questo sarebbe contro la stessa impostazione laica e liberale della Repubblica.
Strumentalmente si confonde la sospensione dell’accanimento terapeutico con l’eutanasia, ma l’eutanasia presuppone un atteggiamento attivo nell’indurre la sospensione delle funzioni vitali. In realtà il problema è già stato più volte affrontato dal Comitato Nazionale di Bioetica, dalla Convenzione di Oviedo e nel Codice Deontologico medico ed è stato più volte ribadito che non possono essere messi in atto trattamenti inutili, inefficaci, gravosi ed eccezionali nel tentativo disperato di mantenere in vita un malato in imminente situazione terminale; il presupposto è che non deve esistere nessun vantaggio per il paziente e deve esistere una volontà espressa.
A questo punto è indispensabile una normativa sulla dichiarazione anticipata di trattamento che consiste nella volontà con cui il dichiarante si esprime in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere e deve riguardare sia il vero e proprio accanimento terapeutico sia l’alimentazione e l’idratazione forzata. Rifiutare l’idratazione, la nutrizione artificiale, le terapie inutili e aggressive non significa rifiutare la vita, ma l’opera dell’uomo.
Giuseppe Ferrara
[medico, redazione CuF, Bari]