Motivi per non credere: l’abisso e la Verità, di Matteo Losapio
Ci sono dei motivi per cui non credere in Dio. Non sono delle motivazioni, come se li dovessimo giustificare, ma dei motivi, dei fatti, episodi, cronache per cui non solo è difficile credere in Dio, ma è impossibile. Un ragazzo di diciotto anni entra in una scuola, in Texas, armato fino ai denti e compie una strage, uccidendo diciannove bambini e due adulti. Fa già orrore pensare di uccidere un bambino, figuriamoci diciannove, insieme a due maestre che hanno cercato di mettersi sulla linea del fuoco. Una donna in chemioterapia partorisce una bambina prematura con un polmone collassato mentre l’altro fa fatica ad espandersi con il respiro. Una ragazza si lancia dal tetto di scuola mentre un altro ragazzo dal balcone di casa. Un’altra donna che entra ed esce dall’ospedale per curare un male psichico. Situazioni in cui è impossibile credere e per cui non converrebbe neanche porsi tante domande, altrimenti rischiamo di complicarci la vita e di non risolvere assolutamente nulla. Meglio stare a guardare, mi rispondo, confidando in quelle piccole sicurezze divine che mi sono guadagnato nella mia poca esperienza. D’altronde, ho tanti e tanti amici e amiche che non credono e che sanno benissimo che il loro credere o non credere non farebbe alcuna differenza. Perché, spesso, non siamo capaci di alimentare neanche la nostra fede, non siamo capaci neanche di porre delle domande alla fede, di interrogarla, di scuoterla. Ci accontentiamo delle piccole risposte, delle piccole conquiste, delle nostre sicurezze che recintano la nostra esistenza e ci impediscono di guardare giù, nell’abisso del non senso. Perché guardare in quell’abisso ci fa paura. Perché guardare in quell’abisso ci farebbe perdere anche le piccole sicurezze e ci costringerebbe a fare i conti con una realtà in cui Dio non esiste, in cui Dio non si fa sentire, in cui Dio non si fa vedere e, in fin dei conti, neanche risponde. Un abisso oscuro, fatto di vuoto, non senso, disperazione e impotenza. Un abisso in cui facciamo sempre più fatica a guardare, dal momento che pensiamo che l’onnipotenza ci appartenga, che sia nel palmo della nostra mano, nello smartphone iperconnesso. Immaginate come ci faccia davvero paura provare un senso di impotenza dinanzi a delle situazioni abissali, in cui non possiamo fare nulla e non possiamo che lasciare il posto alla disperazione. Per noi che siamo abituati a cercare ogni risposta su internet, quanto farebbe paura guardare in un abisso che non ha risposte? Meglio non porsi queste domande, meglio non indagare, meglio continuare a credere in quello che pensiamo sia giusto, in una certa forma di fede razionale, che cerca di affermare piuttosto che interrogare. Una fede razionale fatta di bigottismo, oscurantismo, folclore, autoritarismo gerarchico, direzione di coscienze, tradizionalismi di stampo religioso iniziati l’anno precedente, così tanto per riempire un calendario. Una fede razionale che Pavel Florenskij afferma essere la più alta forma di ateismo in quanto non presuppone una “accettazione di Dio”, ma uno “spacciarsi per Dio”. Uno spacciarsi per Dio che produce santoni che dirigono le coscienze degli altri, guru dalla doppia morale, bigotti con una morbosa volontà di sapere sul sesso degli altri, piuttosto che su quello degli angeli, riproduttori di fasti del passato per conservare una certa forma di governo e di devozione. Ed anche le risposte più congeniali e più a buon mercato che possiamo incontrare, non riescono a sopperire a quella domanda che proviene dall’abisso, a quel suono continuo che disturba le frequenze, a quel rumore di fondo che rimane lì, anche quando è impercettibile o quando facciamo finta di non ascoltarlo. Quella domanda che ci riduce all’impotenza, che ci spinge a guardare nell’abisso, affrontando le nostre più nascoste paure, quelle che ci dicono chi siamo davvero. E mentre scrivo nell’abisso, mi vengono in mente le parole di Florenskij:
Tra la conoscenza concettuale (postulativa quindi presuppositiva) della Verità, che abbiamo finora indagato, e la conoscenza propria dell’intuizione intellettuale della Verità (della Verità sussistente, che include in sé la propria fondazione e che perciò è assoluta) c’è un abisso che non si può affatto aggirare e che nessuno sforzo riesce a far saltare. Perché bisogna porsi su un terreno nuovo di cui non abbiamo neanche idea e non sappiamo nemmeno se esista, perché i beni spirituali che cerchiamo sono posti al di là della conoscenza carnale, sono “quel che occhio mai non vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare” (1Cor 2,9; Is 64). Il ponte che conduce da qualche parte, forse sull’orlo dell’abisso, forse all’Eden delle perenni gioie spirituali, oppure da nessuna parte, è la fede. Dobbiamo o morire nell’agonia sulla nostra sponda dell’abisso, o andare verso l’ignoto e cercarvi la “Terra nuova” dove “abita la Verità-Giustizia” (2Pt 3,13). Siamo liberi di scegliere, ma dobbiamo deciderci per l’uno o per l’altro: per la ricerca della Trinità o per la morte nella pazzia. Scegliamo: o verme, o nulla; tertium non datur![1]
Affrontare l’abisso. Questa è la sola scelta plausibile per la fede. Dove la fede non è un dono o un caso, ma una scelta. Scegliere di aver fede, lanciarsi nell’abisso per coglierne gli interrogativi più profondi e avere il coraggio di porsi delle domande a cui non ci sono risposte. O, meglio, non ci sono risposte preconfezionate o non ci sono risposte che altri possono darci. La vita di fede è la scelta di interrogarsi nell’abisso del non senso, non per trovare delle facili risposte, ma per arrendersi al mistero di un Dio ignoto. Proprio in questi giorni è tornato spesso, alla mente, la Parola di Atti degli Apostoli in cui Paolo dialoga sull’Areopago di Atene. E nel suo dialogo parla di un Dio ignoto, quel Dio entro cui siamo, ci muoviamo ed esistiamo. Tutto il nostro razionalismo, tutte le risposte che ci possiamo dare o che gli altri ci possono offrire sono fumo e paglia dinanzi al fuoco di una domanda abissale, dinanzi ad una domanda che non riesce a trovare risposte ma ci permette di scorgere dentro l’anelito alla Verità. Anelito che non è meno vero di tutto il resto, che non è solo una illusione altrimenti non avrebbe senso neanche affacciarsi sull’abisso. Un desiderio di Verità entro cui ogni domanda si muove e vive e che, in realtà, non cerca soluzioni o risposte, ma frammenti, schegge, barlumi, intuizioni, cercando la Verità dappertutto e rimanendo nell’abisso di una domanda che rischiara la una fede che non si accontenta di risposte ma che rimane così: anelito di Verità.
[Presbitero, redattore CUF]
[1] P. A. Florenskij, La Colonna e il Fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, p. 74-75.