Morte di un precario, di Emanuele Carrieri
Fra poche settimane, avrebbe dovuto prendere parte a una esposizione con una sua opera. Carmine Cerbera, precario napoletano di cinquanta anni, venerdì della scorsa settimana, è morto dissanguato. Si è reciso di netto carotide e giugulare. Superfluo aggiungere che i soccorsi non sono valsi a nulla, la moglie ha forzato la serratura del bagno dove si era rinchiuso, ma non ha potuto bloccare la devastante fuoriuscita di sangue. Carmine lascia moglie e due figlie. A cinquanta anni si sentiva sconfitto, impotente, con ogni probabilità inadeguato per questa società. E si è arreso.
Carmine era un insegnante precario di storia dell’arte, nessuna cattedra e nessun lavoro quest’anno. Ma aveva appena conseguito la seconda laurea. Era il 22 ottobre quando scriveva sul web: “Oggi dovrei essere gioioso perché ho conseguito la seconda laurea, ma sono triste perché il ministro Profumo ci sta distruggendo il futuro … Siamo precari a vita, ammettendo di essere fortunati …”.
La sua è una storia paragonabile a quella di tanti altri: imprenditori, lavoratori autonomi, operai che hanno preferito scomparire in silenzio e togliere il fastidio. Qualcuno ha definito questi suicidi “omicidi di Stato” e il precariato “reato di Stato”.
Di fatto qui non si tratta più del fallimento di un singolo che taglia la corda per vigliaccheria, qui si tratta del fallimento di uno Stato, di un modo di governare e di fare politica, è il fallimento di un sistema culturale ed economico che, molto spesso, premia i marpioni e cancella le tutele, le fatiche e i sacrifici di tanti lavoratori.
Probabilmente è arrivato il momento di pensare e formulare un sistema meno irragionevole e insopportabile. Eppure il primo articolo della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E ancora altri articoli che parlano di diritto al lavoro, di dignità, che rimandano alla possibilità, anzi al diritto e al dovere, per ogni cittadino italiano, di sentirsi parte integrante della società, parte di un meccanismo che dovrebbe permettere una crescita personale e collettiva. La domanda che nasce spontanea, però, è se questi articoli facciano ancora oggi parte della nostra Costituzione o siano stati, nel frattempo, aboliti a nostra insaputa.
Il processo di disconoscimento sociale del lavoro è giunto ormai a un punto da compromettere la dignità della vita della maggioranza delle persone, l’identità collettiva si dissolve e, senza identità, anche quella individuale diventa più fragile. Il lavoro è diventato mercanzia da comprare al minor prezzo possibile e i lavoratori sono diventati quasi senza corpo, fisico e psicologico. E in questo contesto si colloca il fenomeno della precarietà, in cui le persone vengono riconsegnate alla loro solitudine individuale. Certo è che quello che sta avvenendo nel nostro Paese, in spregio totale a qualsiasi dinamica democratica, è il disconoscimento del disagio, dell’avvilimento e della prostrazione vissuta da intere categorie di lavoratori, messe alla porta da quella che, fino a poco tempo fa, appariva come la loro area di lavoro stabile e sicuro. C’è chi per vergogna, per disillusione, forse anche per timore, non riesce a sopportare quella che sembra essere diventata una feroce condanna. Il fallimento di Carmine non è una vicenda che riguarda lui, la moglie, le due figlie e nemmeno soltanto questo governo, anche se davvero poco è stato fatto nell’ultimo anno per risolvere il problema.
È il fallimento, completo e totale, di venti anni di esecutivi e di politici che hanno lasciato che il nodo dei precari divenisse sempre più aggrovigliato fino ad arrivare a oggi, con generazioni intere di persone travolte, estromesse da un percorso professionale a dispetto di studi, specializzazioni, corsi destinati ad assegnare punteggi, ma, soprattutto, a riempire le tasche di chi ha fiutato l’affare.
Nessuno faccia finta di meravigliarsi, perciò, se una mattina un uomo con moglie e due figlie, una seconda laurea appena conseguita a cinquanta anni e un sistema che gli sta sbattendo in faccia tutte le porte, decide di rinchiudersi in bagno e di tagliarsi la gola.
Fonte: "Nuovo Dialogo" n. 32 del 9 novembre 2012