La violenza: cifra di una società fragile, di Raffaella Ardito
L’ultima storia, in termini cronologici, di denuncia contro una maestra manesca non è più brutta della alte ai disonori della cronaca negli ultimi anni, è solo più prossima. È questo a renderla per noi più inquietante, più insopportabile: il fatto che si sia consumata per troppo tempo vicino alle nostre case.
Da quanto quella maestra maltrattava i suoi alunni?
Come mai nessuno se n’è accorto prima?
Saremmo ipocriti, e anche faciloni, se pensassimo che in passato queste cose non accadessero e che non accadranno più. Quello che cambia è come questi fatti sconvolgenti vengano percepiti, come vengano raccontati.
Da un alto c’è un’emergenza educativa che si vive per adulti che abdicano al ruolo di genitori o educatori in generale e, a volte, non sapendo volendo riuscendo a farlo si arrendono in vari modi o a vari istinti (vedi quella maestra), dall’altra troviamo ragazzi che fanno i bulli, che costringono Carolina a togliersi la vita a soli quattordici anni o che danno fuoco ad una ragazza, la propria ragazza.
Una società emancipata, che conosce e si conosce, può involvere nel suo nocciolo, nei luoghi di formazione, nelle agenzie educative che dovrebbero collaborare fra loro e occuparsi del loro futuro attraverso i più piccoli, i più fragili? La chiesa, la famiglia, la scuola: tutte sotto accusa.
Eppure di contro abbiamo genitori, preti, insegnanti lasciati soli. L’alleanza tra genitori-insegnati è saltata: si guardano con sospetto e purtroppo la cronaca, che pure va raccontata, alimenta i disagi e il dubbio. Insegnanti e genitori demoliscono reciprocamente le loro autonome e sacrosante autorità. Bambini e ragazzi ci giocano con facilità con queste debolezze e non trovando sane e robuste certezze, che contestano ma cercano negli adulti, diventano più fragili di loro.
Il dramma intergenerazionale è una costante di ogni tempo, ma in un mondo dai cambiamenti rapidissimi rischia di divenire enorme.
Bambini che, secondo l’accusa, vivevano in un clima di terrore, adulti indignati, e altri che alla violenza rispondono con la violenza come a Pistoia quando in casa di una delle maestre accusate di prepotenze vengono lanciate due molotov.
Una società debole!
Per dar fuoco ad una persona, viva, che dici di amare, nemmeno la sensazione di possesso può alimentarti, ma solo il vuoto. Occorre avere un grande vuoto dentro per non ascoltare le implorazioni alla vita, come occorre avere un vuoto dentro, magari meno grande, per strattonare e maltrattare un piccolo impaurito e indifeso alla presenza di tanti altri piccoli e indifesi.
E poi c’è un problema di autorevolezza: si pensa di conquistarla con forza, ma così non può essere.
E poi c’è un problema di autoaffermazione e legittimazione di alcuni giovani, e le cercano nella e con violenza.
La violenza, insomma, è parte attiva di questa società, la fa da padrona: da quella verbale a quella psicologica fino a quella fisica e alla pretesa di controllare, con prepotenza, la vita di un altro fino a possederla.
Un proverbio recita “giochi di mani, giochi di villani” perché la parola doveva essere piena, liberatoria, strumentale ad uscire da una condizione di sudditanza o inferiorità, come insegna don Milani, e chi l’aveva era più libero, più colto (non solo erudito) anche nell’animo e la violenza non doveva essere più affar suo. La lasciava ai villani, più incivili anche nel senso etimologico del termine.
Eppure le proposte e le occasioni educative si moltiplicano: teatro, laboratori di ogni sorta, oratori e tante esperienze estive e altro ancora, ma sarà che siamo la società degli eventi e non degli “essenti”?
E allora tutto questo ci pone un problema culturale, ancor prima che educativo.
fonte: Domani Andriese, maggio 2013