L’abbraccio come corpo ri-volto, di Matteo Losapio
Solo un anno fa, i balconi delle nostre città erano pieni di frasi del tipo Andrà tutto bene o Torneremo ad abbracciarci. Frasi che sembrano rimaste lì, appese ad inferriate e mosse dal vento, senza nessun effetto. Infatti, appena il Cattivo Stato ha aperto le gabbie delle nostre case, ecco che subito abbiamo ripreso a sbranarci, come lupi famelici. L’impressionante specie umana che non è in grado di liberarsi dalle proprie prigioni interiori e che è in grado di giudicare un abbraccio come atto moralmente illecito. È bastato l’abbraccio di una giovane volontaria della Croce Rossa Italiana ad un migrante che ha visto l’inferno con i suoi stessi occhi, a scatenare il peggio della nostra cultura globalizzata. Ma questa volta non vogliamo riflettere sulla nostra parte più mediocre, ma su quella più alta, quella che è ancora capace di abbracciare.
Per prima cosa è interessante notare come ciò che ci sia mancato maggiormente, durante i mesi della pandemia, siano stati proprio gli abbracci. Non i baci, non le strette di mano, non le carezze, ma gli abbracci. Il distanziamento sociale ha fatto emergere un vuoto, non solo dentro di noi, ma dinanzi a noi. Un vuoto fatto di mancanze e incompletezze, che solo un abbraccio riesce a colmare. Non è nostra intenzione fare retorica o romanticismo sul ricevere o dare un abbraccio, ma riflettere su cosa significhi abbracciare una persona. Se ci fermassimo, qualche minuto, a riflettere sulla dimensione dell’abbraccio, ci accorgeremmo che è il gesto che ci viene più spontaneo quando proviamo una forte emozione nei confronti di chi ci sta dinanzi. Una forte emozione che, volutamente, lasciamo nell’indefinito e nell’indefinibile, perché plurale. Al contrario di una stretta di mano o di una carezza o di un bacio, un abbraccio esprime una pluralità di significati emotivi che diventano sempre più marcati nel momento in cui si rimane abbracciati. Stringere un po’ di più colui o colei che abbracciamo, aprire le proprie braccia, porre la testa in un modo piuttosto che in un altro divengono segni precisi di cosa stiamo provando in quel preciso momento, in quel determinato contesto. Le parole, insomma, diventano marcate, visibili e tangibili, nel segno dell’abbraccio ed è l’abbraccio che significa le parole che diciamo.
In riferimento alla tangibilità dell’abbraccio, emerge la seconda caratteristica. L’aprire le braccia come segno di fiducia e accoglienza nei confronti dell’altro, trasforma l’abbraccio in un luogo di intimità. Corpi che si stringono, l’uno all’altro, facendo trasparire emozioni e stati d’animo. Tangibilità dei corpi che non diventa possesso, che non diventa penetrazione del corpo di uno nell’altro, come è il gesto dell’atto sessuale, altra gestualità complessa. Ma tangibilità dei corpi, desiderio di farsi toccare nell’interezza da un’altra interezza e non solo da una parte o in una parte. Ecco, allora, che l’interezza diviene luogo dell’intimità, perché solo nell’intimità ci riveliamo per quello che siamo e per come siamo. Sorriso, tranquillità, pianto, grido, tutto nell’intimità di un abbraccio e che rimane nell’intimità dell’abbraccio, senza essere posseduti dall’abbraccio stesso, senza che l’altro abbiamo qualche prelatura o qualche privilegio nei nostri confronti. Perché la tangibilità dell’abbraccio è legata ad un limite che è la pelle stessa dell’altro, il corpo dell’altro che posso accogliere ma non assimilare a me, non divorare nel mio desiderio. Un confine che è il corpo dell’altro, il quale mi dice che esiste, che è soggetto, che percepisce il mio stesso corpo come zona di confine da tangere. Un corpo materiale a cui aggrapparsi o riposare, a seconda dell’abbraccio, ma soprattutto di cui gioire. Perché è un corpo che dice una presenza e che dà senso alla mia presenza, dicendomi che esisto e che lui esiste per me, come io per lui. Nel suo ultimo libro, Massimo Recalcati scrive:
Quando sono amato non esisto più per caso, privo di significato, non sono più “di troppo” nel mondo, ma sono divenuto il “senso” della vita dell’Altro, sono ciò che attribuisce significato a quella vita e che da quella stessa vita può, sentendosi reciprocamente amato, attingere il suo senso. Insomma, la gioia dell’amore consiste nel fatto che la mia esistenza che ontologicamente non è il fondamento di se stessa, una volta amata si trova ad esistere perché è voluta dall’Altro, sin nei suoi più minimi e infimi dettagli, perché è stata scelta, attesa, “chiamata” dall’Altro. In questo la gioia dell’amore si rivela come quella di un riconoscimento profondo: non sono nel mondo per caso, perduto nell’insensatezza e nell’abbandono assoluto, ma ci sono perché qualcuno mi ha scelto, atteso, chiamato. [M. Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi, Torino 2021, p. 234].
In questo senso, allora, l’abbraccio riesce a trasformare il gesto del tocco in volto. La possibilità di accogliere un corpo fra le braccia, di sentirlo respirare, di percepirsi, al tempo stesso, abbracciante e abbracciato, come colui che dona nell’atto stesso in cui riceve, nell’essere corpo dinanzi ad un corpo, senza possedersi, è ciò che trasforma il semplice gesto del toccare l’altro in un volto che prende tutto il corpo. Per Recalcati, come per Lacan, l’Altro è il tramite, il senso e il pro-getto del mio desiderio. L’Altro è colui che muove il desiderio e Colui che detta, quasi, il mio stesso desiderio. Per questo nell’abbraccio questo Altro non è più solo un grande generico o un ente trascendente ma è colui che mi è dinanzi, colui che incarna l’Altro nelle sue stesse braccia che mi accolgono. Allora, comprendo che ogni mio desiderio termina lì, nell’abbraccio in cui posso essere me stesso, in cui posso essere un volto che si esprime nella sua unicità. Infatti, abbiamo schiacciato il volto solo sulla faccia dell’altro, come sistema muscolare in grado di esprimere i vari stati d’animo. Ma quando abbracciamo una persona ci rendiamo conto che è il suo stesso corpo a diventare volto, che ogni muscolo esprime una sensazione, e ogni muscolo percepisce l’altro e permette all’altro di riconoscersi come corpo ri-volto verso di noi. Torneremo ad abbracciarci, allora? Speriamo! Perché nell’abbraccio ritroviamo quello che Karl Jaspers chiamava das Umgreifende, l’Essere Tutt-abbracciante, che ingloba in sé ogni nostro gesto e ogni nostra esistenza. Quell’Essere che ci abbraccia e che ci permette di ritrovare il senso di un gesto così universale e rivoluzionario, come un abbraccio.
[redattore CUF]