Il potere terribile di giudicare, di Mariolina Iacovone
Sono stata tra le prime donne ad entrare in magistratura, quando ancora eravamo mosche bianche e bisognava dimostrare di essere più brave degli uomini. Nel mio concorso nel distretto della Corte d’appello di Bari eravamo solo in due: io e l’attuale Procuratore Generale dr.ssa Annamaria Tosto. Pensate quanta strada abbiamo fatto come donne!
Quando presi servizio nella Pretura di Verona ero la prima donna magistrato, per di più giovane (avevo 27 anni) e meridionale. Ricordo che alla prima udienza vennero a vedermi moltissimi avvocati e anche molti colleghi tanto che io mi innervosii ed esclamai a gran voce “e che è? Il teatro?” lasciando tutti di stucco.
Non è semplice pensare che fra qualche giorno non sarò più un magistrato ed è stato penoso scrivere la parola “dimissioni dall’ordine giudiziario”…
Dal mio ingresso in magistratura sino all’ultimo è stata una strada in salita. E quando mi sentivo già su uno scivolo è arrivato il coronavirus a complicare i miei ultimi mesi con tutti i mille problemi che ha portato con sé sia sul piano esistenziale che sul piano lavorativo, sconvolgendo ritmi di vita e di lavoro che fino a ieri costituivano delle sicurezze.
Sette anni di lavoro come presidente di sezione e due precedenti come f.f per cercare di smaltire arretrato, ma senza trascurare i processi più importanti che man mano giungevano, anni passati a cercare di organizzare il lavoro con un gruppetto di colleghi meravigliosi che mi hanno sempre seguito con affetto e impegno, e poi il Covid 19 che come uno tsunami si sta portando via tutto quel lavoro che avevo fatto per non lasciare niente indietro.
Come dicevo, si è trattato di un percorso in salita, ma non mi sono mai sentita sola e sono sempre stata sostenuta da tante persone, molte delle quali non ci sono più… Persone che mi hanno fatto crescere umanamente e professionalmente, anche quelle che sono state critiche nei miei confronti e con le quali ho dissentito. Sì forse soprattutto queste persone mi hanno fatto crescere più delle altre costringendomi a impegnarmi e a studiare ancora più approfonditamente determinate questioni.
Ed è stata una salita non certo agevole e con pochi pianori, ma mi sono sempre sentita sorretta da mani più forti delle mie e in grado di non farmi mai indietreggiare nelle mie idee.
Di certo avrò commesso molti errori, ma mi sono sempre ispirata ai principi costituzionali ed in particolare a quel bellissimo art. 3 della nostra Costituzione che ha costituito la mia stella polare : “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non ho mai avuto alcun timore reverenziale nei confronti di imputati “potenti” e ho sempre esercitato le mie funzioni rispettando sempre l’uomo che era di fronte a me per essere giudicato. Quasi vent’anni fa, in un Congresso di Magistratura Democratica svoltosi a Modena Luigi Ferraioli in una sua celebre efficacissima e da allora citatissima lectio magistralis , invitava i giudici a tenere sempre ben presente che mentre un magistrato incontra nella sua carriera, in udienza, o comunque sul lavoro, migliaia di persone, con l’ovvio effetto di non poterne ricordare che alcune e solo magari per aspetti particolari o non emotivamente coinvolgenti, molto spesso invece un cittadino nel corso della sua vita incontra un Giudice una sola volta in un incontro che è una vera e propria esperienza esistenziale, e che di quel Giudice quel cittadino ricorderà per sempre l’attenzione, la capacità di ascolto e di relazionarsi con tutti gli attori del processo in modo non autoritario, la capacità di empatia con la sua ben più difficile condizione di giudicato, in una parola la sua capacità di “dare fiducia di sé”, ovvero che all’opposto di quel Giudice ricorderà l’arroganza, l’approccio autoritario e/o burocratico, l’ottusità, il pregiudizio non celato ma magari esibito. E sottolineava quanto rivesta decisiva importanza, per la credibilità e la legittimazione sociale della giurisdizione, che il Giudice, nel dramma del processo, sappia in sintesi rendersi affidabile, autorevole, nell’esercizio del potere terribile del giudicare. Concludendo che quei magistrati che non sanno corrispondere al necessario e doveroso saper essere del giudicare in un ordinamento democratico offrendo invece appunto una immagine arrogante, ottusa, autoritaria della Magistratura, ledendone non solo la credibilità ma a ben guardare la sua stessa essenza, invero attentano nel quotidiano all’autonomia ed alla indipendenza della giurisdizione , perché grazie alla loro condotta i cittadini non vedranno allora più tali prerogative come strumenti posti per la loro difesa ma quali insopportabili privilegi di casta.
Queste parole mi sono rimaste scolpite perché esprimono molto meglio di quanto io potessi dire un pensiero che mi ha sempre accompagnato sin dai primi giorni del mio lavoro: l’importanza del rapporto umano che ciascuno di noi riesce ad instaurare con le parti del processo e la consapevolezza dell’estrema importanza di ogni nostro provvedimento, anche del più semplice quale può essere un’autorizzazione che per noi costituisce un gesto quasi meccanico, ma che per chi la chiede è importantissima perché gli consente, per esempio, di andare a vedere il figlio appena nato mentre egli è agli arresti domiciliari o di andare a trovare il genitore ammalato in fin di vita o di recarsi in ospedale per un esame urgente. Questo ho sempre cercato di non dimenticare anche nei momenti di maggiore stanchezza quando mi sembrava di stare a svuotare il mare con un secchiello.
L’importanza del lavoro del giudice non è solo nella bella sentenza destinata magari a fare giurisprudenza o nelle ordinanze custodiali di centinaia di pagine con cui viene sgominato un clan malavitoso, ma in ogni suo provvedimento, anche il più routinario che tuttavia è destinato ad incidere nella vita delle persone in maniera significativa. Questo ho cercato di tenere sempre presente ed ho cercato di far comprendere ai colleghi più giovani, troppo spesso già demotivati o proiettati verso altre mete.
Il discorso che in questo tempo di emergenza coronavirus sta prendendo piede del processo penale da remoto non mi convince affatto, anche se capisco che è dettato dalla buona intenzione di far funzionare in qualche modo questa macchina farraginosa della giustizia sempre pronta ad incepparsi. Ma credetemi, se fossi un imputato vorrei poter guardare in faccia il mio giudice e non affidarmi ad un’immagine in uno schermo. Anche per questo penso davvero che sia giunto il momento per me di andare via. Quando non si è in grado di capire i cambiamenti significa che si è diventati vecchi e che è giunto il momento di lasciare.
Ecco io sento di non poter dare più niente in questo contesto così mutato e vado via con la certezza di aver fatto fino in fondo il mio dovere pur tra errori e difficoltà.
Come ci ha ricordato Papa Francesco in una bellissima omelia (del 26.4. scorso) di qualche domenica fa, bisogna passare dal SE al SI, passare cioè dal concentrarsi su se stessi e dalla lamentela per ciò che non va, al “Si “, ossia “alla Gioia nel servizio per gli altri”.
Faccio mia questa esortazione per continuare a vivere cercando di non lamentarmi troppo ma chiedendomi ogni giorno, anche quando non sarò più magistrato, cosa posso fare per aiutare gli altri, soprattutto gli ultimi e i più deboli.
[magistrato, Bari]