Giochi e politica, di Matteo Losapio
Fireworks and Gunpowder è una delle installazioni artistiche dell’architetto russo Kirill Savchenkov. Opera d’arte che verrà esposta alla Biennale di Venezia del 2022 per il Padiglione Russo. Si tratta, tuttavia, di un’opera artistica estremamente differente dalle classiche e da come si può concepire un’opera d’arte. Infatti, l’opera di Savchenkov non è solo un’opera d’arte ma un gioco da tavola, molto particolare. I giocatori non sono chiamati a sfidarsi l’uno con l’altro, ma a cooperare per risolvere casi complessi, derivati dalle notizie riportate nel corso della storia. Si tratta di un gioco cooperativo il cui obiettivo è quello di individuare vie d’uscita da situazioni difficili nello scacchiere geopolitico. Un gioco simile a quelli utilizzati dalla CIA e dall’intelligence di tutto il mondo, per addestrare i propri agenti. Giochi, dunque, che ci permettono non solo di entrare in una prospettiva differente, ma anche di concepire nuovamente il senso di un gioco. Scrive Ferruccio de Natale:
L’interesse per l’attività ludica - la varietà delle sue forme, la sua struttura svincolata da fini produttivi, la sua potenza attrattiva, i suoi molteplici effetti, i suoi controversi significati - è certamente assai antico. Probabilmente, è persino banale sottolinearlo, risale a quando l’uomo ha iniziato a riflettere sul senso dei comportamenti propri e del suo prossimo (distaccandosi dai fini produttivi o di difesa o di sottomissione) e ha considerato gli animali che lo circondavano non solo come prede e predatori, ma come compagni di vita, animali ‘domestici’, anche se dotati della capacità e del ‘bisogno’ di giocare tra loro e con i propri cuccioli. Metafore e forme lessicali proprie del gioco fioriscono nella scrittura letteraria, in ogni forma di produzione artistica ad iniziare dalla poesia e sono ben presenti nella filosofia occidentale sin dai suoi albori, in Grecia. È nel ventesimo secolo, tuttavia, che il gioco è divenuto oggetto di uno studio sistematico, scientifico, attento alle sue implicazioni nello sviluppo e nella strutturazione della personalità umana nelle sue dimensioni individuali, sociali, culturali.[1]
Da qualche anno si parla di un fenomeno antico ritradotto in termini nuovi: gamification. Si tratta della propensione di tutti gli esseri umani al gioco. Dove il gioco non è solo un passatempo ma permette di dare un senso alla realtà che ci circonda. Attraverso i giochi possiamo simulare problemi o situazioni, gareggiare o confrontarci, trovare soluzioni o sconfiggere l’altro. La realtà acquista un senso, una direzione per cui tutti i giocatori condividono regole e obiettivi, strumenti e capacità. Giocare, insomma, significa mettersi in gioco, entrare in uno scenario in cui non c’è un senso determinato ma una mèta da raggiungere insieme. Ebbene, attraverso i giochi, possiamo anche e soprattutto filtrare la nostra considerazione della realtà o anche offrirci una interpretazione della realtà, attraverso le sue stesse regole. Un gioco competitivo può dire qualcosa sul nostro modo di essere nella competizione, come anche un gioco cooperativo può far emergere la nostra capacità di adattamento o di leadership. I giochi ci aiutano a questo: a comprendere come vivere nella realtà. Ma da queste considerazioni emergono due domande. La prima domanda è: se un gioco ha delle regole attraverso cui poter interpretare la vita reale, chi decide le regole del gioco? Se le regole del gioco cambiassero, possono cambiare anche le regole della realtà?
La prima cosa che ci spinge a pensare, in qualunque gioco, è chi faccia le regole. Ovviamente, non è una domanda che ci facciamo mentre giochiamo, come neanche alla fine del gioco, quando tutti abbiamo raggiunto l’obiettivo finale. Questa è una domanda che ci facciamo quando il gioco diventa un’opera d’arte, quando prendiamo le distanze dal gioco, quando il gioco stesso ci mette dinanzi ad un altro metterci in gioco, nell’interpretazione stessa del gioco. Una meta-riflessione del gioco sul gioco, per cui le regole esprimono un paradigma e una visione antropologica definita. Un gioco in cui solo una persona può vincere, esprime una visione individualista, di un soggetto in grado di prevalere sugli altri soggetti. Una visione di essere umano concorrente, in cui la sfida è con l’altro e con gli altri, formando alleanze, lobby o gruppi di interesse, contro o a favore di qualcosa. Altri giochi, come quelli di Savchenkov, invece, si basano sulla cooperazione dei giocatori verso un obiettivo comune. E colpisce, in particolare di questo architetto, la sua abilità nell’unire il gioco a situazioni sociali e politiche realmente accadute, districandosi fra poteri e violenze più o meno velate. Un modo di giocare che dice una visione cooperativistica dell’essere umano, giocatori capaci di solidarizzare fra di loro per risolvere situazioni di emergenza e pericolo. Queste due visioni del gioco sono due visioni dell’essere umano: da una parte il giocatore-concorrente e dall’altra il giocatore-partecipante. Tutto dipende dalle regole del gioco che, fuori dal gioco stesso, sono le regole della socialità stessa. Regole del gioco che sono regole di convivenza fra gli individui, nelle comunità e nelle città. Basta che le regole cambino per proporre nuove dinamiche sociali fatte di solidarietà o di conflitto. A proposito dell’opera di Savchenkov, scrive Silvia Dal Dosso:
L’avvicendarsi strategico di operazioni mediatiche e esercizio della violenza, tra democrazia elettorale e autocrazia, caratteristico di regimi ibridi come quelli attualmente al potere in Russia, in Cina, o nelle Filippine, rende il “villain” del gioco, un nemico ombroso, ambiguo, difficilissimo da identificare. Se come riporta Savchenkov “i regimi ibridi contemporanei sono regolati per impiegare l’80% di propaganda e solo il 20% di violenza diretta”, quello che secondo lui ci aspetta, e contro cui dovremmo allenarci giocando, è uno scenario ancora più confuso, “60% di propaganda, 10% di violenza diretta e 30% di contenuti avvelenati”. I contenuti avvelenati rappresentano il lato sempre più ambiguo (disruptive si dice nel marketing) della propaganda, che si tratti di meme, fake news o troll farm, la strategia a monte è la stessa: usare la tecnologia per costruire un apparato mediatico capace di far leva sull’emotività del cittadino e dell’utente.[2]
Dietro ogni gioco c’è un paradigma antropologico, il quale traduce un paradigma culturale e sociale in cui siamo immersi. L’opera di Savchenchov ci spinge a riflettere, attraverso il gioco, sul nostro paradigma sociale di riferimento, a come costruiamo comunità, a quali ideali ci spingono nelle scelte quotidiane, a quali tattiche utilizziamo per affrontare le situazioni che la realtà stessa ci presenta. Perché la dimensione sociale dell’esistenza, altro non è che il nostro modo di tradurre la realtà. Allora giocare significa raffrontare le regole sociali con la realtà, mettere sotto osservazione il loro campo di applicazione e la trasformazione delle regole e dei paradigmi antropologici. Il gioco è una lente attraverso cui leggere la società, per essere consapevoli che dietro alle regole ci sono paradigmi, visioni del mondo, narrazioni della realtà, traduzioni storiche, che possono anche essere messe in discussione e cambiate. A questo serve, infatti, la cultura.
[1] F. de Natale, Il gioco come simbolo della filosofia, Logoi, I(3/2015), p. 51.
[2] S. Dal Dosso, Kirill Savchenkov, architetto di giochi di ruolo fin troppo reali, Domus, 29 novembre 2021. https://www.domusweb.it/it/arte/2021/11/26/kirill-savchenkov-architetto-di-giochi-di-ruolo-fin-troppo-reali.html.
[redattore CUF]