È stata la mano di Dio: una riflessione, di Francesco Occhionigro
Se dovessi esprimere in pochissime parole ciò che “E’ stata la mano di Dio” rappresenta direi che è un capolavoro, il miglior film di Paolo Sorrentino. Il regista si conferma essere forse l’unico in Italia a portare avanti quella tradizione autoriale cinematografica di qualità per cui siamo famosi nel mondo. Questo film lascia tanti spunti ed emozioni che vanno riordinate.
Sorrentino ci regala la sua giovinezza, in quello che è a tutti gli effetti un racconto di formazione. Questo film è nato dalla memoria del regista nella quale ci fa gentilmente accedere: tra familiari grotteschi ed esilaranti, dubbi sul proprio futuro, ferite aperte e Napoli. Napoli che è protagonista vivente tanto quanto il giovane Fabietto, Napoli tra paesaggi mozzafiato e la venerazione per Maradona. Ogni immagine, ogni ricordo, ogni rumore si traduce in un sentimento attraverso la macchina da presa che ancora una volta Sorrentino sa utilizzare in forme sempre nuove e uniche. È paradossale constatare come nel precedente film, vincitore agli Oscar, il racconto della “grande bellezza” di Roma lascia spazio alla fotografia di una società in declino, una “realtà scadente” in cui ci si sente soli e spaesati. Sorrentino ha semplicemente rinviato il racconto di questa “grande bellezza” e lo ha fatto tornando a casa, tornando alle sue origini, alle sue memorie, proprio come il regista e suo mentore Antonio Capuano annuncia in una delle scene più potenti del film: “Chi è di Napoli torna sempre a Napoli”.
Il nostro sguardo viaggia come viaggia lo sguardo di Fabietto, curioso e disilluso, alla ricerca di qualcosa di ancora ignoto. Vediamo il ritratto famigliare di una Napoli piccolo borghese che si era dimenticata e che ricorda molto le commedie di De Filippo: personaggi grotteschi come la signora Gentile, numeri da giocoliere della mamma, fidanzati “deludenti”, gite in barca, scherzi telefonici e bottiglie di conserva che scoppiano. Questa Napoli non veniva raccontata da troppo tempo attraverso una cinepresa che mostra fin troppo le periferie e si concentra poco sulla poesia. Il piano sequenza iniziale sul golfo e le note finali di Pino Daniele ridanno vitalità a questa città.
Non possiamo parlare di Napoli senza parlare di Maradona, “la mano di Dio” che salva. Non a caso il film inizia con questa frase del Pibe de Oro: “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male". Ed infatti non è andato così male. Maradona, la rivoluzione, la perseveranza. Sorrentino attraverso la sua esperienza ha mostrato effettivamente cosa è Maradona per Napoli: una mano che salva, è il riscatto dei vinti, è il talento che si realizza con la perseveranza che lo stesso Sorrentino, con il suo successo, dimostra di avere (proprio come il fratello Marchino preannuncia mentre ammirano le prodezze del Numero 10). In grado di fermare il tempo, bloccare i litigi e le sofferenze, Diego Maradona è stato per Napoli ciò che il cinema è stato per Fabietto: “La realtà non mi piace più, la realtà è scadente! Per questo voglio fare il cinema”.
Il cinema di Fellini ha chiaramente influenzato questo film tanto da ritagliarsi uno spazio tutto suo. Fabietto osserva con ossessivo stupore il “circo della vita” bizzarro ed esilarante che sfila fuori dagli uffici del regista. Fellini non si vede mai ma il suo cinema sì: l’onirico fa da ponte tra la realtà che Sorrentino mette in scena e la biblioteca di ricordi che riaffiorano dalla sua mente. La scena iniziale in cui zia Patrizia incontra san Gennaro in una Rolls Royce alla fermata di un autobus, l’enorme lampadario e il Monaciello sono la più bella dedica che Sorrentino, attraverso il suo personale racconto, poteva fare al Maestro.
Un po' di Fellini lo notiamo anche dall’erotismo anticonvenzionale che domina il film. Le figure di Zia Patrizia e della Baronessa sono di una sensualità autentica, compromessa e viva. In particolare, la prima ha un legame particolare con Fabietto: lui è l’unico che crede alle sue visioni e lei è l’unica che crede ai suoi sogni e ciò dimostra quanto sogno e pazzia non siano poi concetti così diversi.
A primo impatto è difficile accorgersi della quasi mancanza di musica nel film e ciò non è un difetto. Nonostante Fabietto porti sempre con sé walkman e cuffie domina il rumore: i fischi d’amore dei genitori, il tuff tuff tuff poetico di Armando, il ribollire dello Stromboli, lo scoppio delle bottiglie di conserva nei pentoloni e il mare di Napoli onnipresente. Sono i rumori ciò che più ricordiamo della nostra remota infanzia insieme alle immagini che si confondono con il sogno. Sorrentino racconta tutto questo!
Questa è la storia di un ragazzo in cerca del suo futuro, è la storia di un ragazzo che è costretto a diventare grande troppo presto, è la storia di un ragazzo che vuole fuggire la realtà, è la storia di un ragazzo “disunito” che non sa cosa poter dire al mondo, è la storia di un ragazzo che va a Roma come uno “stronzo” e torna a Napoli perché è questo il suo destino.
Solitamente gli aspiranti registi pensano di poter esordire con il film sulla loro vita cadendo molto spesso nel banale e nella carenza di contenuti. Ci dà una lezione importantissima: l’autobiografico è un terreno impervio. Sorrentino lo sa bene e per questo ha realizzato il film in età matura, dopo aver raggiuto il massimo successo, facendo i conti col passato in quello che è un cerchio poetico che si chiude. Con il monaciello che benedice il suo futuro e Napoli nel cuore attraverso una musica che finalmente si rivela con le note di Napul’è.
[Studente presso La Civica Scuola di Cinema "Luchino Visconti", Milano]