Corporeizzazione ovvero diventare Corpo, di Matteo Losapio
Questo scritto non nasce da una qualche riflessione teologico-dottrinale quanto da una lettura teologica di una esperienza pastorale. Questo articolo non ha alcuna pretesa di essere dottrinalmente ineccepibile come neanche di ritenersi esaustivo per quanto riguarda la dimensione teologica legata al Corpo di Cristo. Si tratta, invece, di un tentativo di lettura teologica di un’esperienza all’interno di una comunità parrocchiale. Una lettura che riguarda, appunto, il Corpo di Cristo. Da sempre la Chiesa ha riconosciuto come Corpo di Cristo sia se stessa in quanto comunità di persone battezzate sia l’eucarestia, il pane e il vino che divengono Corpo e Sangue di Gesù. Corpo-Chiesa e Corpo-Eucarestia, indissolubilmente legati e impossibili l’uno senza l’altro. Eppure, nella maggior parte delle liturgie che viviamo si percepisce una specie di scollamento fra ciò in cui crediamo e la maniera con cui ci comportiamo con il nostro corpo. Infatti, molte delle nostre celebrazioni sembrano iniziare sul serio quando vengono prelevate le particole consacrate dal tabernacolo e termina quando vengono riposte nuovamente all’interno del tabernacolo. Mentre il momento più importante della celebrazione sembra essere solo quello della consacrazione, teologicamente detto della transustanziazione. Ora, con il termine transustanziazione, si indica il passaggio della sostanza del pane e del vino nella sostanza del Corpo e del Sangue di Gesù. Se la forma rimane la stessa, la sub stantia, ciò che è sotto cambia. Nel mondo ortodosso, questo passaggio dal pane e vino al Corpo e Sangue viene chiamato metabolè, trasformazione. Rimanendo nel mondo cattolico, tuttavia, ci accorgiamo come il termine transustanziazione sia divenuto altamente tecnico e, forse, incapace di raccontare il mistero della fede che celebriamo in un contesto dove le idee di sostanza, di accidenti, di materia e forma sono diventate obsolete o superate. La questione pastorale e teologica che emerge, a mio parare, allora è quella di ricollegare da una parte il Corpo-Eucarestia e il Corpo-Chiesa, mentre dall’altra di trovare un linguaggio che possa aiutare meglio a riconoscere ciò che davvero stiamo celebrando. Per partire in questa ricerca, rileggiamo ciò che Annalisa Caputo ha scritto in un suo recente articolo apparso per Logoi.ph.
Quello che io (nella singolarità del mio corpo) avverto come ‘presenza reale’, potrebbe essere una mera allucinazione, solamente una mia fantasia, qualcosa che penso e desidero solo io. Solo se c’è un ‘altro’ in carne e ossa con cui vivo la ‘presenza’, la relazione è ‘reale’ (se vogliamo continuare ad usare questo termine), è presenza ‘reale’. La realtà si dà solo nell’incontro/scontro plurale di esistenze. Perciò ogni relazione è almeno duale. Senza relazione reciproca nessuna relazione reale. Ma non esiste relazione reale che non sia relazione tra corpi. ‘Questo è il mio corpo’ non è presenza reale, se non c’è un altro che vede, ascolta, prende, tocca, mangia. Ma, viceversa, l’altro non potrebbe vedere, ascoltare, prendere, toccare, mangiare, se non ci fosse il mio corpo che si sta donando a lui. Allora possiamo sintetizzare così: la presenza reale è tale solo nel dono reale... di due corpi che si consegnano mutualmente. «Dono della presenza, presenza del dono». Non due corpi-sostanza che si incontrano in un fantomatico spazio-tempo vuoto. Ma due corpi che si relazionano comunicandosi, e comunicano relazionandosi. Abitando e creando un luogo, che è quello della loro stessa relazione significata e significante. E, allora, quando ci sei realmente tu, ci sono realmente anche io, e viceversa. Altrimenti, nessuna reale presenza. Nessun reale ‘con’. Solo due frecce, due intenzionalità, teoricamente anche due doni... che però non si incontrano realmente. Il che non significa, lo ribadiamo, che la presenza reale si riduca a presenza fisica, perché il corpo non è mai solo corpo-Körper, o corpo biologico. Ma, al contrario, significa che non si può dimenticare o mettere in secondo piano l’origine corporea di ogni esperienza, relazione, realtà. [A. Caputo, Questo è il mio corpo (épandu). Una decostruzione filosofica de Le nozze dell’agnello di Emmanuel Falque, Logoi.ph, VI(2020), p. 218-219].
Innanzitutto, se vogliamo ricomprendere il nesso fra Corpo-Eucarestia e Corpo-Chiesa non possiamo non tornare alla parola corpo. Dove corpo è, in prima istanza, il nostro corpo, il nostro essere questa persona qui. Tuttavia, siamo corpo nella misura in cui siamo riconosciuti come tale, siamo oltre l’individualità della nostra carne, siamo oltre il fisico e biologico. In altre parole, non siamo solo corpo quando siamo presenti fisicamente dinanzi alle persone, ma anche quando gli altri ci ricordano, ci immaginano, ci pensano. Siamo corpo nella misura in cui siamo intreccio complesso di relazioni, nella misura in cui mettiamo in gioco le nostre relazioni. Il rovescio di tutto questo, infatti, è proprio l’ostentazione del fisico che, nelle sue forme, cela il desiderio di un riconoscimento nell’altro, per non cadere nel baratro della dimenticanza. Siamo corpo, allora, non solo quando siamo presenti fisicamente, ma quando siamo presenza. Dove per presenza dice non solo chi siamo per noi stessi ma anche chi siamo per gli altri. Ed è questo essere presenza per gli altri che dice la nostra presenza reale, in quanto corpo. Ora, se questo vale per il livello antropologico può valere anche per il livello teologico, per cui il Corpo-Chiesa e Corpo-Eucarestia sono entrambi presenza reale nella misura in cui si riconoscono reciprocamente, nella misura in cui riconosciamo che celebrando il mistero del Corpo e Sangue di Cristo, non ci stiamo solo nutrendo in maniera individuale, ma ci stiamo riconoscendo come Corpo-Chiesa. Si tratta, allora, di passare dalla logica del supermercato, dove ognuno compra quello che vuole, a quella comunitaria, nel riconoscersi tutti partecipi della stessa mensa, dello stesso altare, dello stesso Corpo. E la percezione di essere partecipi e membra dello stesso Corpo, nella mia esperienza, emerge ancora con maggiore chiarezza durante la distribuzione dell’eucarestia. Nel momento in cui ascoltiamo “Corpo di Cristo” affermiamo il nostro “Amen”, ovvero non solo riconosciamo che quello è il Corpo di Cristo ma che noi ci riconosciamo come Corpo di Cristo, colui che distribuisce la comunione e il fedele che la riceve. In questi periodi di pandemia, infatti, dove l’obbligo è di dare la comunione sulle mani, emerge con più chiarezza la storia delle persone, il desiderio di un contatto fra di noi Corpo-Chiesa e con il Corpo-Eucarestia. Mani da muratore, da operaio, da contadino, mani da casalinga, da libera professionista, corredate di anelli che raccontano storie differenti, mani giovani e anziane, mani di padri e di madri, mani ferite. Tutte ricordano una storia, tutte parlano del nostro corpo che riceve un Corpo che è quello di Cristo e che ci permette di riconoscere che Cristo è l’evento-presenza in mezzo a noi. In altre parole, ogni volta che celebriamo stiamo dicendo che siamo noi stessi Corpo di Cristo, che siamo noi stessi Cristo in quanto nutriamo il nostro corpo del suo Corpo. Afferma la biblista Rosanna Virgili:
L’anima del cristianesimo, presente in tutti i libri del canone biblico, consiste in una tensione del corpo verso la vita, verso il superamento del limite posto dalla morte; è quanto abbiamo potuto dimostrare attraverso la lettura di molti testi. Il corpo sessuato è fatto per superare l’individualità e per vincere la solitudine; per darsi continuità nell’apertura alla discendenza e nel fine primario dei figli, per mezzo dei quali ci vuole procurare un plusvalore di vita dopo la morte. La storia del corpo che la Bibbia racconta è quella di un continuo divenire, della libertà e dell’audacia che spesso ha portato a spostare le caratteristiche dell’identità di genere, pur di garantire un futuro alla famiglia, alla società, alla civiltà. Ma ha anche continuamente cambiato gli schemi storici delle sue incarnazioni, seguendo le ragioni della Sapienza e dello Spirito: la comunione, l’amore, il patto tra due o più. [R. Virgili, Il corpo e la Parola. L’umano come processo nella Bibbia, Qiqajon, Magnano 2020, p. 183-184].
Se siamo il nostro corpo è anche vero che, nelle relazioni che viviamo, in una certa misura diveniamo corpo, poiché il nostro corpo non dice solo chi siamo ma anche ciò che abbiamo vissuto e ciò che stiamo vivendo. E se il nostro corpo è anche nelle relazioni che viviamo anche nella relazione con il Corpo di Cristo siamo in divenire, diveniamo suo Corpo nell’Eucarestia e nella Chiesa. In altre parole, se volessimo tradurre oggi la categoria della transustanziazione, potremmo utilizzare la parola corporeizzazione. Dove per corporeizzazione intendiamo l’intreccio delle relazioni che ci legano al Corpo-Eucarestia e al Corpo-Chiesa in un insieme dinamico, in un cammino che ci rende sempre più corpo. A livello teologico e pastorale, si tratterebbe di abbattere la logica del c’è/non c’è, dell’on/off liturgico per quanto riguarda la presenza di Cristo e ritornare un’antica e sempre nuova responsabilità del nostro essere cristiani, dell’essere noi, in prima persona, Corpo di Cristo. Di diventare Corpo, di mangiare il suo Corpo, di riconoscerci Corpo, corporeizzarci.
[redattore CUF]