Ciao Alessandro!
Tarantino ma romano d'adozione, Leogrande, che è stato vicedirettore della rivista 'Lo straniero' diretta da Goffredo Fofi, collaboratore di diversi quotidiani e di Radio3, ha vinto nel 2003 il Premio Sandro Onofri con 'Le male vite' (L'Ancora del Mediterraneo). I suoi libri, l'ultimo è 'La frontiera' (Feltrinelli) mostrano chiaramente il suo impegno sociale. Tra questi: 'Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud' (Mondadori).
Di seguito un'intervista a lui, apparsa sul nostro cartaceo, nel 2009, dal titolo: "Bonificando gli sguardi"
1. G. Deleuze ha scritto : “Se il mondo è diventato un brutto cinema al quale non crediamo più, un vero cinema non potrebbe contribuire a ridarci delle ragioni per credere nel mondo e nei corpi venuti meno?” Tu che ne pensi?
Viviamo nel pieno dominio delle immagini; stadio maturo del pieno dominio della tecnica sul mondo che ci circonda. Non è più la televisione a essere il veicolo principe delle immagini, bensì la rete con Youtube e i social network. Molti vedono in tutto questo un passaggio dalla verticalità della tv all’orizzontalità della rete. Io non sarei così automaticamente entusiasta circa gli aspetti apparentemente iperdemocratici della mutazione. Dal momento che la questione centrale rimane: qual è la qualità delle immagini? Quale la loro moralità?
Immagini, apparentemente iperdemocratiche, possono anche essere profondamente pornografiche, o violente, o reintrodurre una pratica del dominio.
Il cinema per sopravvivere deve creare una nicchia che preservi lo sguardo e il punto di osservazione. Ciò è necessario per indagare sul mondo, ma soprattutto per bonificare il nostro sguardo, che guarda a quel mondo.
Questo è, inoltre, lo spazio della critica: attività oggi in via di estinzione.
2. Dalla nascita del cinematografo, la prima proiezione fu effettuata nel Salone del Grand Cafè a Parigi: Lumière dichiarò che “il cinematografo era soltanto una curiosità scientifica”. Questo fu subito confutato da G. Méliès che intravide subito un'inesauribile fonte di trucchi, mentre Charles Phatè così profetizzò: “Il cinema è come lo spettacolo, il giornale e la scuola di domani.”
Secondo te cosa è diventato realmente il cinema dopo l’avvento della realtà multimediale e informatica?
È molto mutato, come dicevo. Ciò nonostante continuano a esserci grandissimi registi. Sia nel cinema ufficiale, che ai suoi margini.
3. L’altro aspetto che emerge dopo una storia, che ha superato il secolo, è quello tra cinema e memoria. Con l’affermazione della società dei media, sono questi che stabiliscono che cosa si dimentica e che cosa si deve ricordare (E. Esposito, 2001). Si profila in tal modo il rapporto tra memoria, società e cinema. Come viene sostenuto da più parti, il rischio di Babele (V. Marotta, 2006) è quello di non capirsi più e di dare alle parole e alle immagini significati inesatti.
Nella tua esperienza di attore e docente, quale ruolo ha avuto memoria nel tessuto sociale e artistico che hai attraversato?
Il cinema riattiva sicuramente le leve della memoria. Alcuni grandi film sono stati anche grandi opere di controstoria. Lo ha fatto il neorealismo, lo hanno fatto anche registi venuti dopo. Si pensi all’opera di Gianni Amelio: Lamerica e Così ridevano riscrivono il nostro passato più o meno recente in chiave critica attraverso storie minute di vittime della storia. Si pensi anche a Matteo Garrone e il suo raccontare un’umanità ferocemente mutata negli ultimi vent’anni.
4. Pasolini ha affrontato con rigore le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La sua produzione cinematografica è contrassegnata da contrasti molto forti. L’idea della morte attraversa tutte le sue opere: da Accattone (1964) a Salò (1975). L’altro aspetto del cinema pasoliniano è la creazione di sinestesie nella costruzione delle immagini con l'uso e l'orchestrazione di tutte le arti di cui il cinema si compone, soprattutto la musica, la fotografia, il teatro e la pittura.
Secondo te Pasolini può essere considerato fondatore del cinema poetico?
Attraverso il suo cinema è possibile vedere tutto il percorso intellettuale di Pasolini. Tra Accattone e Salò intercorre la stessa distanza che c’è tra Poesie in forma di rosa e Lettere luterane. È evidente, via via, una perdita della categoria della speranza nell’opera di Pasolini. Nei primi anni sessanta Pasolini è consapevole che c’è un genocidio culturale in atto. Ciononostante intravede delle sacche di diversità nel sotto-proletariato romano o nel sud dei Sassi trasfigurato nel Vangelo o nel sud del mondo… si pensi ai bellissimi versi “sono una forza del passato…”
Alla metà degli anni settanta constata la piena omologazione di queste sacche. Le vittime sono diventate istericamente simili ai loro carnefici; ogni diversità è sottratta. Per cui un’opera di dissidenza è molto più difficile all’interno di una sorta di nuovo fascismo.
Salò parla disperatamente di tutto questo. Il Vangelo, invece, intravedeva nelle predicazioni di Gesù, e soprattutto nel momento culminante delle Beatitudini, la possibile rottura di tutto ciò: solo i miti, tra le vittime, non diventeranno nella mutazione simili ai carnefici. Per Pasolini, però, le cose sono andate, almeno sul piano sociologico, più tragicamente.
[scrittore, Taranto - intervista raccolta da Franco Ferrara, redazione CuF]