Cercando un lavoro più intelligente e libero*, di Nunzio Lillo
In un Paese come l’Italia in cui la classe dirigente fa fatica ad accettare di perdere il controllo fisico sul dipendente, che bada più al tempo che non alla qualità di quanto fatto dal lavoratore, e dove generalmente il troppo tempo passato a lavoro impedisce di essere creativi e felici, c’è voluta una pandemia per fare un salto in avanti di almeno 10 anni nella diffusione del lavoro a distanza.
Per avere un’idea, in Italia si lavora circa 1800 ore a testa in un anno a fronte delle 1400 della Germania (dove, guarda caso, la produttività è più alta). Proprio questo approccio – come spiega bene il sociologo Domenico De Masi –, la mancanza di fiducia nei confronti delle capacità del dipendente di poter lavorare anche a distanza, ha impedito almeno fino a marzo del 2020, lo sviluppo dello Smart Working. Prima del lockdown lavoravano fuori dall'ufficio meno di 600mila persone. Con il lockdown, in poche settimane, sono diventate 8 milioni.
Se questa pandemia ci avesse sorpreso anche solo un decennio fa, quando le connessioni internet ad alta velocità non esistevano ancora, adesso staremmo sicuramente raccontando un’altra (e ben più drammatica) storia.
Lo si chiami telelavoro o Smart Working, comunque il lavoro a distanza suppone un'organizzazione per obiettivi: il lavoratore riceve dal suo capo il lavoro da svolgere e il termine entro il quale va svolto. Da questo momento in poi è libero di scegliere dove, come e quando lavorare. A lavoro ultimato, ne consegnerà al proprio superiore i risultati.
Andrebbe anche chiarito cosa è e non è Smart Working. Non è sicuramente lavorare tutti e sempre a casa: può essere adottato solo per alcune mansioni che meglio si prestano alla remotizzazione (per motivi tecnici, organizzativi, umani) e può essere limitato ad alcuni giorni della settimana o ad alcune settimane del mese. Non è lavoro a domicilio: può essere svolto nella casa del lavoratore, o in uffici periferici, o dove il lavoratore preferisce, in giardino, in spiaggia, al bar. Non significa, come abbiamo già detto, anarchia: ogni lavoratore a distanza opera per obiettivi, entro un piano operativo che lo collega a tutti gli altri suoi colleghi, ai suoi capi o ai suoi collaboratori.
Il controllo da parte del superiore, anziché avvenire sul processo, avviene prevalentemente sui risultati: è, quindi, meno dispendioso, meno alienante, più rispettoso della dignità del lavoratore. Così come i singoli tele-lavoratori possono essere raggiunti, interpellati, coordinati dal datore di lavoro, con l’attuale tecnologia, così potrebbero essere raggiunti, informati, organizzati anche dal sindacato. Lavoro agile non significa necessariamente isolamento: il minor numero di rapporti personali (peraltro non sempre sani) con i colleghi in ufficio potrebbe essere ampiamente compensato dal maggior numero di rapporti personali in famiglia, nel condominio, nel quartiere. La maggior parte dei lavoratori oggi vive come un estraneo sia nel quartiere dove lavora di giorno sia nel quartiere dove dorme di notte. Di fatto, egli è un estraneo nella propria comunità di residenza, nella propria polis.
Smart significa intelligente. Anche se luoghi ed orari in cui si lavora non sono gli unici fattori per rendere intelligente un lavoro, questi possono aiutare. Secondo numerosi studi scientifici, lavorare a distanza aumenta la produttività del lavoro di circa il 20%. In ufficio, spesso, vi è una continua distrazione, le battute dei colleghi, le pause caffè, il brusio di fondo (specie negli open space). In altri luoghi o a casa, spesso si è da soli, più motivati e padroni del proprio lavoro. I vantaggi per il lavoratore sono anche: risparmio di tempo per il pendolarismo (fino anche a due ore di viaggio per molti); risparmio di denaro (carburante, mezzi di trasporto); netta riduzione dei cosiddetti “infortuni in itinere” (da incidenti lungo il tragitto casa/lavoro); più tempo per sé stessi, per famiglia, amici, vicini di casa. Si decide dei propri orari, si conciliano interessi e inclinazioni.
I vantaggi sono anche per le aziende, nel risparmio su spazi, affitti, mobili, riscaldamento, consumi. Si riduce anche la conflittualità tra le persone e si inducono i capi a organizzarsi per obiettivi: un enorme passo avanti. E ci sono vantaggi anche per la comunità. Meno inquinamento, meno rumore, meno traffico, meno spese per le manutenzioni stradali. Insomma ci guadagniamo tutti. Potremmo tutti riorganizzarci, facendo ricongiungere la vita con il lavoro: ora sono due cose separate.
Tuttavia, il timore diffuso tra i gli Smart Worker è che una volta superata questa pandemia si cercherà di riportarli nel “recinto aziendale”. Questo perché le leadership aziendali (a parte nobili eccezioni) sono affette da una vera e propria “resistenza psicologica e patologica” nell’applicare il lavoro a distanza. Forse perché hanno un problema culturale, di conservazione del potere. Laddove il potere viene inteso come una sopraffazione continua al collaboratore.
Nella famosa enciclica sociale “Populorum progressio” (Lo sviluppo dei popoli), scritta e pubblicata nel 1967 da Papa Paolo VI, è illuminante la frase: “Il lavoro è umano solo se resta intelligente e libero.”
“Smart Working” è la traduzione inglese dell’espressione ‘lavoro intelligente‘. Laddove, però, Paolo VI, intendeva dire molto di più. Cioè che si possa essere felici sul lavoro quando il lavoro diventa più intelligente e libero. Da questo punto di vista il coronavirus ha operato, senza volerlo, in questa direzione, sollevando interrogativi fondamentali sul valore del lavoro in rapporto alla salute, al tempo libero, alla giustizia e all’interazione con gli altri.
[impiegato, vicepresidente Cuf, Cassano, Bari]
* Il presente articolo, a firma di Nunzio Lillo, per un errore redazionale, non è stato pubblicato sul numero cartaceo 123, come annunciato in copertina e dove è stato pubblicato nuovamente, a pag. 9, l'articolo del precedente numero. Ce ne scusiamo con l'autori e i lettori.