Appunti di "teologia empia", di Matteo Losapio
In questi giorni di quarantena ho terminato di leggere il Dialogo teologico di Manlio Sgalambro (1924-2014). Filosofo di origini siciliane, Sgalambro è noto per il suo pensiero che, fra i molti riferimenti, è senza dubbio legato ad Arthur Schopenauer. Tuttavia, Manlio Sgalambro è ancor più noto per essere stato grande amico di Franco Battiato, di cui è stato anche ispiratore e coautore di diverse canzoni. Ora, nel suo Dialogo teologico, Sgalambro giunge alla formazione di una teologia empia. Mi ha lasciato molto sorpreso non solo l’ossimoro di questa idea, ma anche il metodo e i riferimenti che permettono al nostro autore di giungere ad una tale formulazione. Infatti, i principali riferimenti di Sgalambro non sono gli atei positivisti ma la stessa teologia medievale che, per la sua poderosa espressione, diviene un luogo eccezionale di confronto e di dialogo fra un filosofo e un teologo, nella seconda parte del libro. La teologia empia formulata da Sgalambro è ciò che cresce all’ombra della teologia medievale, è il frutto della avversione e della diffidenza dinanzi a Dio e alle parole dei teologi. Come a dire che il troppo parlare di Dio produce l’effetto contrario, una specie di rigurgito anti divino fomentato dagli stessi difensori della teologia. Mi è parso un argomento interessante, perché mi sembra che proprio in questi giorni, in cui la catastrofe bussa alle nostre porte, occorre tornare alla domanda su Dio.
Spinto e tirato, allargato secondo le proprie giustificazioni, tentato di far parlare o di parafrasare nella sua Parola, sembra che Dio sia diventato il burattino per eccellenza, il polo giustificante di tante nostre opinioni che non sanno dove fondarsi e, per questo, scelgono un fondamento Eterno e Immutabile, pur rimanendo opinioni. L’intento della teologia empia di Sgalambro è quello di scendere continuamente nelle profondità per annullare ogni pregiudizio che abbiamo su Dio o tutto ciò che altri ci hanno detto su di lui. L’empietà consiste, dunque, in uno scarnificare e disossare l’idea di Dio attraverso l’uso della ragione e del pensiero. L’empietà raccontata da Sgalambro, dunque, ci riporta all’essenziale della teologia ovvero la domanda su Dio. Una domanda di cui oggi se ne sente particolarmente il bisogno dal momento che l’idea che abbiamo di Dio vede da una parte l’accettazione di tutto quello che gli esperti di Dio dai preti agli studiosi dicono, dall’altra un certo comportamento melense per cui Dio è ridotto ad una specie di droga che mi permette di evadere dalla realtà. In questo modo, da una parte abbiamo un tacciare di ateismo tutto quello che non viene detto dagli esperti di Dio, mentre dall’altra un Dio che è buono solo per i messaggini di buongiorno sui social. Ecco, allora, l’epoca in cui l’empietà viene associata alla domanda, al pensiero, alla ricerca inquieta di Dio. Una empietà che diviene sfida nei confronti di Dio e delle nostre idee su di lui.
Tempo fa, nella mia parrocchia d’origine, ho servito messa durante il funerale di un padre di famiglia stroncato da un infarto. Alla fine del funerale il figlio ha iniziato a gridare e ad inveire in chiesa guardando il crocifisso. Molte persone definirebbero questo atteggiamento un vero e proprio segno di ateismo o di empietà, appunto, dal momento che non si grida mai contro Dio, anzi bisogna accettare la sua volontà imperscrutabile. È innegabile che questa idea che abbiamo di Dio generi non solo frustrazione ma una vera e propria diffidenza verso una massa d’essere, per dirla alla Sgalambro, che ci tratta come formiche. In realtà, approfondendo gli studi, mi sono accorto che quell’uomo stava davvero facendo teologia, perché stava gridando dinanzi a Dio la sua domanda. Ed è quella domanda che diviene preghiera. Infatti, siamo abituati a pensare la teologia con una accezione pagana, per cui ogni cosa che viene detta da chi ha una certa formazione teologica rimane indiscutibile, un ipse dixit postmoderno che non si può mettere in discussione per non cadere nella hýbris greca, nell’empietà di chi cerca di sfidare Dio. Ma la fede nel Dio di Gesù Cristo non è la fede in un dio pagano ma è la fede nel Dio d’Israele dinanzi a cui ci si pone anche con la propria rabbia e il proprio dolore, domandone conto a lui. È la fede del rib ebraico, del venire a contesa e del discutere con Dio. Un corpo a corpo che non tollera le facili soluzioni ma lotta con Dio, come Giacobbe, come Giobbe, come nei Salmi. Ecco, allora, che il domandare a Dio diviene preghiera, senza accontentarci di facili soluzioni o delle giustificazioni a buon mercato. E chiunque, credente o non credente, è consapevole che in fondo al suo essere abissale c’è questa domanda, questa lotta, la cui risposta è il nostro personale dialogo con Dio. In questo siamo inquieti teologi.
[studente di teologia, redattore CuF, Bisceglie, Bari]