Appartenenze e prossimità, di Rocco D’Ambrosio
In un paese meridionale, nel periodo fascista, Carlo Levi ambienta il suo Cristo si è fermato ad Eboli. Il protagonista, che è un cittadino del nord confinato a sud, riceve la visita della sorella.
L’autore nota il modo in cui è accolto in paese: “Finora io ero stato, per loro, qualcuno piovuto dal cielo: ma mi mancava qualcosa: ero solo. L'aver scoperto che anch'io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c'è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l'istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale, ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza”.
Troviamo qui il modello e la fonte di ogni atteggiamento di appartenenza: la famiglia. Anche la filosofia ci dimostra come il nostro appartenere ha il suo battesimo prima nella casa, poi nel clan, poi nella tribù e, infine, nella città, come spiega Aristotele. Quello della consanguineità, come scrive Levi, è uno dei più profondi sentimenti che smuove cognizioni ed emozioni, capace di creare ponti con comunanze più ampie, famiglie di famiglie e città. In quest’ottica non sono esagerati i suoi termini sacro, arcano e magico. Ma l’appartenenza alla famiglia non è l’unica, accanto a essa, e subito dopo di essa, c’è quella al territorio che abitiamo, città o quartiere che sia.
Una traccia di comprensione ce la offre Levi quando parla di conterraneità come elemento unificante, basato sul comune destino o sulla comune accettazione, spiegati dall’autore come un senso, non un atto di coscienza; come qualcosa che si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti e che rende l’altro dei nostri.
Diciamolo con un paragone: è la comunità che abito che semina nel campo interiore della singola persona e raccoglie appartenenza; i semi sono quei dati intellettuali ed emotivi (ordine, giustizia, coerenza, fiducia e sicurezza) e la loro relativa prassi. Tuttavia non sempre viviamo come maturi e convinti cittadini del territorio che abitiamo. Spesso lo sfuggiamo, non contribuiamo alla sua crescita, magari ci vergogniamo di dire le nostre origini (come alcuni meridionali al nord). Oppure schizofrenicamente in un momento le difendiamo con sciocchi campanilismi e, in altri, le disprezziamo, con stucchevoli snobismi. Le nostre comunità locali spesso non crescono non solo per motivi politici ed economici, ma anche, e prima di tutto, per il poco amore che abbiamo verso di loro.
A questi rischi Mounier oppone non solo una critica, ma anche la proposta di un itinerario di maturazione di appartenenza salutare alle comunità di appartenenza:
“Come mai le cose e le stelle e questi uomini diventano la mia carne al punto che sarà per me un più doloroso strappo lasciare un amico, una casa amata, una terra, che non separarmi da un membro della mia carne? Il fatto è che questo ambiente (sia esso dato o eletto) io l’avrò scelto come si sceglie un amico e gli avrò offerto tutto ciò che si offre ad un amico, quel tesoro che per me ha un valore». La via per realizzare questa appartenenza nelle comunità locali è quella di organizzare le prossimità in comunità, come scrive ancora Mounier. Le comunità locali sono i luoghi in cui incontriamo persone che si pongono accanto a noi come prossime. Con loro sperimentiamo percorsi di ogni tipo: familiare, amicale, professionale, politico, ecclesiale e così via. Dino Lovecchio, un nostro amico prematuramente scomparso, ci ha insegnato che è possibile farlo, compassione e intelligenza, perché tutti si sentano prossimi, crescano e siano sereni nell’angolo di mondo che abitano.
di Rocco D’Ambrosio
Cercasi un fine n.93
(ottobre 2014 - Anno X)
sul tema: comunità locali