Tutto dipende dall'amore, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 34-40).
25 ottobre 2020.
Le riflessioni sull’amore per Dio e per gli altri sono le più difficili. Spesso nei nostri ambienti il discorso sull’amore ha subito un terribile impoverimento moralistico, tanto da poter affermare con Mounier che l’amore è ormai presentato come una “virtù inghirlandata di papavero”. Non è certo ciò che dice papa Francesco, nell’enciclica Fratelli Tutti, ma è innegabile che, nei nostri contesti, spesso si parla di amore in maniera debole, moralistica, inefficace, narcisistica, con complessi d’inferiorità; finanche in modo egocentrico o volgare.
In questo quadro è alquanto prevedibile la separazione netta o l’opposizione che i credenti hanno operato tra atteggiamento d’amore e prassi sociale e politica, ripetendo un po’ l’errore di alcuni ebrei: “Nelle tradizioni ebraiche - scrive il papa - l’imperativo di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle relazioni tra i membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai connazionali” (FT, n. 56). Pensiamo a quante visoni ristrette ci sono di amore: amo alcuni (parenti, amici, vicini, colleghi di lavoro, stranieri) e altri no. Con questo non intendo affatto dire che amare il prossimo - sconosciuto, straniero, diverso, lontano - sia cosa semplice. Tutt’altro! È esercizio continuo.
L’enciclica è anche una bella pagina di pedagogia sull’amare Dio e amare tutti, in fraternità e amicizia sociale. E’ una sorta di invito pressante a non restringere i confini e gli ambiti. Papa Francesco considera la carità come un continuum nella vita, anche se assume diverse forme: “È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica” (n. 186).
Ci si potrebbe, allora, verificare sul nostro modo di amare Iddio e il prossimo scrivendo una storia di come, quando e perché abbiamo amato “il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente”. E, allo stesso modo, di come abbiamo amato il prossimo, in maniera diretta o indiretta, come suggerisce il papa. Cosa ci insegna la storia umana, ma anche la nostra personale e irripetibile storia? Qui la memoria corta di insinua, spesso sovrana.
Un altro elemento, a proposito di prossimo, ampiamente trattato anche nella nuova enciclica: il buon Dio si esprime su uno degli amori più difficili, quello per gli stranieri migranti e precisa: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto”(Es 20, 22). L’invito ad amare è rafforzato dal ricordare di aver avuto la stessa condizione disagiata. Anche noi italiani siamo stai per decenni migranti in altre terre…
Ma anche verso Dio l’amore è rafforzato dal ricordo, in questo caso del suo amore per noi, sempre e comunque. Uno tra i tantissimi brani: “Si sono rifiutati di obbedire e non si sono ricordati dei tuoi prodigi, che tu avevi operato in loro favore; hanno indurito la loro cervice e nella loro ribellione si sono dati un capo per tornare alla loro schiavitù. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e non li hai abbandonati” (Neemia 9, 14).
Dobbiamo amare il buon Dio è il prossimo: è l'essenza della nostra fede. Ma, per farlo, ci può aiutare l’aver memoria. Memoria per le volte in cui il buon Dio ci ha attratto con il suo amore, ha pervaso corpo e anima con la dolcezza della sua cura per noi. Memoria per le volte in cui, nonostante i nostri limiti e peccati, abbiamo amato gli altri come noi stessi.
Ma c’è anche un altro esercizio di memoria da fare: ricordare parenti o colleghi che ci sono antipatici o odiamo, oppure cittadini stranieri che detestiamo. Cosa ci insegna la nostra storia? La grazia di Dio ci sostiene e ci rinnova quando impariamo dalle nostre sconfitte e facciamo tesoro dei nostri successi.
Ebbene la nostra vita, la nostra storia non dipende dai sentimenti negativi che abbiamo verso di loro. Quei sentimenti ci portano a morire. La nostra vita dipende dall'amore che nutriamo per loro. E l'amore per loro non ci verrà spontaneo, anzi! L'amore per loro è e sarà sempre un esercizio, cioè correggere e affinare parole, gesti e sentimenti perché esprimano amore, con l'aiuto di Dio. Una fatica, ma bella. Una bella storia.
“Un essere umano - scrive ancora papa Francesco - è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non attraverso un dono sincero di sé». E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: «Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro». Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. (…)“ (FT, n. 87).
Rocco D'Ambrosio