Questa è fede, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17, 5-10).
6.10.2013: Sono in molti, siamo in molti a desiderare e pregare come gli apostoli: Accresci in noi la fede! Eppure il Signore non accoglie la richiesta ma sembra voler esprimere quasi un rimprovero: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste... Non compiamo opere del pari dello sradicare e dare ordini agli alberi o alle montagne, quindi non abbiamo fede. Così la preghiera degli apostoli sembra essere legittima e autentica. E allora perché il rimprovero di Gesù sulla poca fede? Un bel rebus...
Forse può aiutare il discorso che segue - apparentemente staccato - cioè quello sull’umiltà. La letteratura ha molti riferimenti al rapporto servo-padrone. Gesù accoglie in questo brano quello che è il sentire comune: il servo ha degli obblighi verso il padrone e questi non ne ha verso il servo, nemmeno quello della gratitudine. Siamo servi, per dare più forza alle parole, dovremmo dire “schiavi”. E il nostro padrone è il Signore. Verso di Lui abbiamo solo doveri e non possiamo avere nessuna pretesa. Il concetto “servi inutili” – ci dicono i biblisti – andrebbe tradotto più con “servi non meritevoli di ricompensa”. E in questo atteggiamento di umiltà, di non pretesa c’è molto di fede, di conferma e di crescita di essa.
Scriveva Dietrich Bonhoeffer, nel luglio del 1944: Più tardi ho appreso, e continuo ad apprendere anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere al di quà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano , e questo io chiamo “esserealdiquà”, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e si diventa uomini, si diventa Cristiani (cfr. Ger.45).
Questo sintetico brano mi ha sempre fatto riflettere sul fatto che i nostri itinerari verso la fede, o di conferma di essa, sono spesso condotti su strade sbagliate. Sono, in fondo, molto legati al a fare qualcosa di noi stessi un santo, un peccatore pentito o un uomo di Chiesa..., come dice Bonhoeffer. Evangelicamente si direbbe sono ancora legati al sentirci servi meritevoli di ricompensa, a sentirci qualcuno.
Penso che si inizi a credere veramente, a spostare alberi e montagne, quando ci si butta completamente nelle braccia di Dio. E il prosieguo di Bonhoeffer è di grande ammonimento per le nostre ansie, il nostro continuo preoccuparci per tutto e per tutti: allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani e, io credo, questa è fede.
Rocco D'Ambrosio