Oltre la condanna, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». (Gv 3, 16-18).
11 giugno 2017. Ho sempre pensato che la condanna è una delle cose più facili da pronunciare. Basta poco, sopratutto in chi è fragile e immaturo: una differenza di giudizio o opinioni, una diversità di vedute, un torto subito, un pregiudizio, latente razzismo o omofobia e via di seguito. Immediatamente “si parte” condannando tutto e tutti. Non è facile contenersi. Anche chi è maturo e formato deve tenere a freno questo istinto di condanna. E solo anni e anni di esercizi interiori e condivisi ci aiutano a discernere e ponderare per non condannare a ogni piè sospinto.
Dio è diverso. Non ha bisogno di… maturare o capire meglio come stanno le cose, di conoscere l’essenza dei fatti, di valutare se l’amore vince oppure soccombe. Problemi che Lui non ha. Noi si. Dio sceglie l’amore al posto della condanna. “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Ma cos’è questa “condanna”? Immediatamente ci vengono in mente tribunali, giudici, avvocati, leggi, punizioni e così via. Simpaticamente diremmo: e che tribunale! Il Padre, il Figlio e lo Spirito che ci giudicano. Condanna inevitabile, sempre e comunque.
Per il vocabolario “condannare” è l’opposto di “perdonare”. Ma non solo per il vocabolario, anche nella nostra vita. Chi prende sul serio le proprie relazioni è spesso a un bivio terribile: condannare o perdonare. Non parlo qui della giustizia umana, della sua necessità, del fatto che sia efficiente ed efficace, equa quanto saggia, riformata e mai piegata a interessi individuali o di parte. Mi riferisco a un livello più profondo: quando, assolti gli obblighi di giustizia umana e sociale, noi restiamo soli con noi stessi e con il dilemma: condannare o perdonare.
Ma non è così per il buon Dio. Per Lui non c’è nessun bivio: Iddio ci perdona, non ci condanna. E noi abbiamo un solo modo per entrare in questa comunione di amore: credere nel suo Figlio Gesù. E cosa vuol dire qui credere? Vuol dire credere che mi perdonerà anche se merito solo di essere condannato. Solo e solamente, sempre e comunque, senza nessun merito di sorta, merito la sua condanna e mai il suo perdono.
Scrive Martin Buber ne I racconti dei Chassidim: “Una volta, alla fine del Giorno del Perdono, Rabbi Shlomo, che era di buon umore, disse che avrebbe rivelato che cosa ciascuno degli scolari aveva chiesto al cielo in quei santi giorni e quale era stata la risposta. Al primo degli scolari che si fece avanti, disse: “La tua preghiera è stata che a suo tempo Dio ti conceda di guadagnarti il pane senza travaglio, perché tu non venga ostacolato nel servizio di Dio. E la risposta è che ciò che Dio veramente desidera ricevere da te non è la tua preghiera e il tuo studio, ma appunto quel sospiro del tuo cuore desolato, perché il travaglio di guadagnarti da vivere ti impedisce di servire Dio”. Quel sospiro che ripete sempre: “Signore abbi pietà di me”.
Rocco D’Ambrosio