In cerca di tenerezza, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini (Mt 14, 13-21).
3.8.2014 In tanti ci ricordano che dobbiamo soccorrere coloro che stanno male, molto male, per fame e ingiustizie. Si chiamano profeti, ieri come oggi. Hanno tantissimi nomi; tra gli ultimi: Tonino Bello, Oscar Romero, Teresa di Calcutta, Francesco. Come per il Vangelo, reagiamo in diversi modi al loro appello per gli ultimi, agli inviti a sfamare gli affamati. Mi concentro su un piccolo-grande particolare: è una qualità necessaria e indispensabile perché gli appelli portino frutti. E’ contenuta in quel passaggio evangelico: Gesù vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Gli studiosi sono concordi sul considerare quella compassione come una vera e propria tenerezza. Gesù senti tenerezza per coloro che avevano fame ed erano ammalati.
Non ci manca la Parola di Dio, non ci mancano i profeti. Forse ci manca la tenerezza. Ci sono diversi modi di reagire quando ci dicono che altri, vicini o lontani, stanno male e hanno bisogno di noi. Al tempo stesso, per ognuna di queste reazioni, ci sono tante motivazioni, di tutti i tipi. Ma siamo teneri? No, molto spesso siamo duri: con i nostri giudizi, con l’indifferenza, con mille scuse per non darci da fare. Siamo duri, troppo duri. E molto, attorno a noi, ci spinge a diventarlo di più.
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Sono le parole di Francesco a Lampedusa, l’8 luglio 2013.
Esiste un modo per guarire dall’indifferenza? Ci si può educare alla tenerezza? Credo proprio di si.
Con piccoli e grandi bisognerebbe iniziare col dire che essere teneri non riguarda solo l’intimità della nostra vita familiare e relazionale. Essere teneri è una virtù da spendere in ogni ambiente: lavorativo, sociale, politico economico e via dicendo. La tenerezza è così lontana dal nostro modo di ragionare che non riusciamo a scoprire nessun nesso tra tenerezza e vita professionale, o politica o economica. Tranne piccole eccezioni, dove la tenerezza è quasi sinonimo di stupidità. Eppure essere teneri è possibile, anzi è l'unica via per sfuggire all’indifferenza. Senza rinnegare la nostra ragione e il nostro buon senso, anzi potenziandoli.
Etty Hillesum, nella tragicità di un lager, riesce a sentire un’infinita tenerezza e sceglie, così, di essere il “cuore pensante dell’intero campo di concentramento”. Testimonianza sublime, ma non per questo lontana ed inutile per la nostra esperienza quotidiana. La sua tenerezza non nasce sull’onda di un contesto sano e portatore di amore e accoglienza, tutt’altro. Nasce , allora, come sfida di una persona, che nel suo sentire e pensare, non vuole rassegnarsi alla violenza e al male. E’ tenera perché ha un cuore pensante e il suo sentire e pensare sono profondi. “Io vivo – scrive nel Diario - vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento…E questo probabilmente esprime il mio amore per la vita. Io riposo in me stessa. E quella parte di me, la parte più profonda e la più ricca in cui riposo è ciò che io chiamo Dio”. La tenerezza, ossia un modo di essere e di rispondere alla durezza del mondo.
Rocco D’Ambrosio