Bontà possibile, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv 10, 27-30).
21.4.13: Sull’ascolto è basato tanto della nostro vivere, molto della vita religiosa, specie giudaico-cristiana. Tra il pastore e le pecore c’è questo importante mezzo: la voce. Il pastore guida le pecore e queste lo seguono, perché conoscono la sua voce. E’ il tema noto e attualissimo della comunicazione. Il leader fedele è colui che sa comunicare, cioè è attento alle persone e a quanto comunica, in termini di verità e di ben vivere. La comunicazione autentica e sincera non è solo garanzia di un buon rapporto del leader con i membri del gruppo, ma è anche condizione indispensabile perché l’istituzione realizzi le sue finalità.
Ma la comunicazione autentica e sincera non basta. Il pastore è anche colui che da la vita, difende le pecore e non permette che nessuno le strappi dalla sua mano. E’ il buon pastore. Stiamo sempre più apprezzando la bontà sincera e profonda di papa Francesco. Ma, in questa settimana, abbiamo anche visto tanta cattiveria, chiusura, ipocrisia e ricerca del proprio interesse, proprio tanta, fuori e dentro il parlamento. Forse così tanta da indurci a pensare che la bontà non è (più) possibile nel nostro mondo. Questa è la sfida: dire e testimoniare una bontà possibile.
Ma la bontà non si inventa. Nasce dal più profondo di sé: dal modo in cui ognuno si “coltiva”. Parole, sentimenti, progetti, strategie di vita vanno sottoposte alla domanda costante, nient'affatto retorica, che spesso poniamo ai piccoli e non a noi adulti: sono buono? Sono buono, cioè voglio il bene mio e degli altri con le mie parole, i miei sentimenti e i miei gesti? E’ facile notare, quando si affronta un discorso del genere, il volto di alcuni che si vela di un dubbio, alcune volte anche di una smorfia. Come a dire: parla di bontà, sogna se vuoi, ma la realtà è un’altra. La realtà è una sola, fatti di buoni e di cattivi. La realtà è fatta di scelte, anzi di una scelta, quella sempiterna: tra bontà e cattiveria (con le sue mille gradazioni). Chi inizia con il dire che il mondo di oggi non da spazio alla bontà, che apparterrebbe ad altri tempi, è già fuori pista, coltivandosi in cliché un po’ sciocchi e dannosi. L’essere buoni, da che mondo è mondo, è stato sempre un’impresa ardua: cambiano contesti e atteggiamenti ma la sostanza no. L’essere buoni è una scelta di vita, che prescinde dalla difficoltà o facilità dell’ambiente. In altri termini non va misurata sulla cattiveria altrui. Bontà sarebbe la fine - e non sarebbe bontà autentica - se la esercitassi solo perché altri attorno a me lo fanno. Con ciò non voglio dire che un ambiente sano non aiuti, ma l’ambiente non è tutto. E l’ambiente di vita fa anche parte della sfida interiore nel testimoniare bontà, ovunque e comunque.
La bontà nasce dentro, dal proprio modo di coltivarsi e si manifesta immediatamente nel comunicare. Chi è buono, nelle intenzioni quanto nei fatti, comunica in maniera sincera. Chi si ostina nelle sue idee, chi non abbandona i suoi interessi non comunica o, meglio, comunica solo chiusure e distruzioni. Al contrario chi comunica autenticamente, direbbe la Arendt addotta parole che "non sono usate per nascondere, ma per manifestare se stessi e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per stabilire nuove relazioni e creare nuove realtà".
Ma la bontà non si ferma alla comunicazione. Arriva fino al dono di sé: Io do loro la vita eterna - dice il Buon Pastore - e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Anche questo non si inventa. E’ il diretto sbocco del coltivarsi in bontà. Milioni e milioni di donne e uomini, in ogni cultura e in ogni tempo, hanno testimoniato la bontà che Gesù abbozza con pochissimi atteggiamenti: comunicare, dare la vita, non perdere, custodire nella propria mano gli altri. Potrebbe essere un utilissimo esercizio di crescita personale imparare a coniugare la bontà utilizzando i verbi evangelici; ci aiuterebbe anche a evitare ogni retorica stucchevole e insopportabile. E l’attualità e freschezza delle parole evangeliche non temono confronti. Quindi, sono buono solo e se comunico, do la vita, non perdo ma custodisco nella mano gli altri. Solo in questo tipo di prassi, nonostante tutte le cattiverie dentro e fuori di me, posso scoprire che essere buono è possibile. E fa bene non solo agli altri ma anche a me. Si: l’essere buoni fa bene, molto bene, a me e agli altri.
Rocco D’Ambrosio