Ultimi e servi, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 30-37).
Forse non c’è persona al mondo che non abbia pensato o discusso almeno una volta della sua superiorità rispetto ad altri. Forse una sola volta, forse per un solo aspetto, forse per un solo momento. Ma comunque l’ha fatto. Perché esso è un sentimento naturale: sentirsi superiori. E’ un istinto originario; eticamente la si chiamerebbe superbia, o nelle sue varianti: orgoglio, autoreferenzialità, sufficienza, spocchia e via dicendo. Gesù accoglie e quasi legittima questo desiderio di essere superiori, cioè più grandi, diremmo primi della classe. Lo accoglie ma capovolge la via per arrivarci: per essere primi e grandi bisogna farsi ultimi e servi. E’ uno delle diverse provocazioni del Vangelo, quasi assurde umanamente: chi è primo è primo, chi è ultimo è ultimo, come chi è grande è grande e chi è servo è servo. Detto questo il discorso potrebbe assumere la via di un’esortazione all’umiltà con pochi fondamenti e convinzioni e tanta ipocrisia e retorica. Penso, invece, che si debba essere onesti con se stessi e non fingere o barare. Porto, portiamo dentro un desiderio costante di essere primi e grandi, chi più, chi meno. E’ la nostra natura. Non va negata ma accettata. L’adesione al Cristo è sconvolgete e destabilizzante. Siamo invitati a fare quello che, in genere, non ci viene spontaneo e naturale. Non c’è bisogno di usare cilici, falsa umiltà, rinnegamento dei doni divini. Possiamo anche avere, per grazia di Dio, capacità e possibilità che ci fanno diventare primi e grandi nei contesti in cui viviamo, fosse solo limitatamente ad alcuni ambiti e momenti. Ebbene non è questo il punto! Il punto è che in tutte le situazioni, nessuna esclusa, siamo sfidati dal Signore a individuare percorsi che ci fanno ultimi e servi. Ma che significa tutto ciò? Significa che anche se volessimo altro, anche se stessimo vivendo altro, anche se ci chiedessero altro… mente e cuore non si devono distrarre da un cammino interiore ed esteriore per diventare ultimi e servi. Last but not least, ossia da ultimo ma non per ultimo: l'impegno ad essere ultimi e servi necessita di amici. Ho sempre pensato che l’amicizia, come insegna Aristotele e anche la Bibbia (Sir 6), è il più grande aiuto per crescere nelle virtù, umiltà compresa. Gli amici autentici ci aiutano ad avere misura di noi stessi, a non montarci la testa, a smontarcela qualora l’avessimo fatto, a farci ultimi e servi anche quando non ci piace, ad accettare il peso dell’umiliazione e della sconfitta, a scoprire la dolcezza dell’umiltà che si nasconde dietro la sua amarezza. Gli amici sono una medicina (Sir 6, 16) contro ogni superbia, spocchia e autoreferenzialità. Medicina rara e preziosa.
Rocco D'Ambrosio