Tra servo e padrone, di Rocco D'Ambrosio
Il Vangelo odierno: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 7-10).
La letteratura ha molti riferimenti al rapporto servo-padrone. Gesù accoglie in questo brano quello che è il sentire comune: il servo ha degli obblighi verso il padrone e questi non ne ha verso il servo, nemmeno quello della gratitudine. Siamo servi, per dare più forza alle parole, dovremmo dire “schiavi”. E il nostro padrone è il Signore. Verso di Lui abbiamo solo doveri e non possiamo avere nessuna pretesa. Il concetto “servi inutili” – ci dicono i biblisti – andrebbe tradotto più con “servi non meritevoli di ricompensa”. Ed è proprio qui il punto: molto del nostro lavoro, nella Chiesa come nel mondo, aspira a una ricompensa, cerca gratitudini a ogni costo. Sembra quasi che la finalità del tutto sia diventata il fatto che qualcuno ci dica grazie, ci ricompensi in maniera materiale o ci gratifichi in maniera emotiva e intellettuale. Il mio amico padre Dan McDonald direbbe che stiamo diventando self promoting. Gesù la pensa diversamente. Siamo schiavi. Il fine del nostro lavoro non è la gratificazione e la ricompensa ma è la gloria di Dio e il bene di quelli che serviamo. In altri termini il fine, il telos, del nostro lavoro è Dio e la Sua gloria e, in Lui, il bene di quelli che serviamo. Il sentirsi servi non meritevoli di ricompensa è direttamente proporzionale all’intima consacrazione alla Sua maggior gloria. Lavoro per Lui e solo per Lui. Facile a dirsi, difficile a viversi, anche nei nostri ambienti dove il lavoro qualche volta è schiavo di logiche utilitaristiche o personalistiche. In questo ci dobbiamo aiutare gli uni gli altri, specie quando dobbiamo ringraziare qualcuno per la sua attività o per il bene che ci ha fatto e ci fa. Il centro non sono io o l’altro, ma solo e sempre Dio. Quindi il grazie a un amico, deve essere accompagnato con un grande, più grande di tutto il resto, grazie a Dio. Ricordiamo quando Gesù ci invita a non essere come i farisei, che non credono proprio perché si scambiano gloria gli uni gli altri e non la danno a Dio. “E come potete credere - afferma Gesù - voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall'unico Dio?” (Gv 5, 44).
Il rendere gloria a Dio per tutto - la vita, i parenti, gli amici, il lavoro, il bene che riceviamo dagli altri, il creato e ogni bene – è prova di grande maturità umana e cristiana. Si diventa autenticamente servi. Profondamenti sereni.
Rocco D'Ambrosio