Guerra e pace, di Ugo Tramballi

Il 4 novembre di trent’anni fa, a Tel Aviv, alla fine di una manifestazione per la pace con i palestinesi, Yitzhak Rabin veniva ucciso. Alla fine dello shabbat, nel luogo dell’attentato, lo hanno ricordato migliaia di nostalgici, in gran parte attempati, cittadini di un Israele che non esiste più. Oggi l’istigatore morale di quell’omicidio, è premier; e i sodali dell’assassino, un estremista ebreo nazional-religioso, sono ministri del suo governo.
La foto orrenda che ho scelto per accompagnare questo post, era stata montata da un paio di giovani coloni estremisti e diffusa in tutto il paese. Era condivisa da molti rabbini, i quali pensavano che cedere ai palestinesi anche solo una parte della terra data da Dio al popolo ebraico– secondo loro e molti altri israeliani – era un peccato passibile di morte.
Quell’immagine vergognosa spuntava anche alle manifestazioni del Likud dove pericolosamente Benjamin Netanyahu arringava le folle. Appariva accanto a molte altre dove Rabin indossava la kefyia palestinese di Yasser Arafat; e altre ancora nelle quali un mirino centrava il volto del premier laburista, con la scrittaIL TRADITORE”.
Rabin era un falco ma anche uno statista: aveva capito che senza una condivisione territoriale con i palestinesi, il popolo d’Israele non sarebbe mai stato in pace. Erano giunti alla stessa conclusione molti altri guerrieri della sua generazione: Moshe Dayan, Shimon Peres, perfino Ariel Sharon. E poi anche i più giovani Ehud Barak, Tzipi Livni, figlia di terroristi ebrei, Ehud Olmert.
La morte di Rabin fu l’inizio della fine del processo di pace chiamato di Oslo, l’unico serio in un secolo di conflitto. Oggi ce n’è un altro che offre speranze, il cosi detto “Piano Trump”: in apparenza più fragile del precedente. Era iniziato il mese scorso, quasi all’improvviso, fra squilli di tromba e rulli di tamburo come piace al suo ideatore, il presidente americano. Era stata fermata la guerra di Gaza che durava da due anni, ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi erano stati liberati. Anche gli aiuti erano rientrati nella striscia ma non ancora in misura adeguata al disastro umanitario che rappresenta Gaza. Ora è tutto fermo, non pace né guerra. Piuttosto un limbo.
Il “Piano Trump” aveva, e continua ad avere, un paio di qualità importanti. Per la prima volta gli americani stanno esercitando una pressione non del tutto amichevole su Israele: nei tentativi precedenti, prima erano esauditi gli interessi israeliani; poi, se c’era tempo, si ascoltavano i palestinesi. In contemporanea, i paesi arabi (Egitto e Qatar) e la Turchia, hanno un ruolo negoziale fondamentale, di pressione su Hamas.
La seconda qualità del “Piano Trump” è che israeliani e palestinesi, i destinatari della pace, ne siano stati in un certo senso esclusi. E’ un segno di forza del negoziato perché sono sempre stati loro a far fallire i piani precedenti: ora ci pensa la comunità internazionale. Ma è anche un segno di debolezza perché a dispetto del consenso mondiale attorno al piano – da Putin a Xi Jinping, dagli arabi agli europei – continuano ad essere israeliani e palestinesi i responsabili della presente incertezza. Anche standone fuori, i due nemici possono far fallire i piani di pace che li riguardano.
Il passo che ora dovrebbe essere fatto è il disarmo di Hamas al quale dovrebbe seguire un ulteriore ritiro israeliano dalla striscia. Ma in entrambi i fronti esiste un partito della guerra. L’altro giorno miliziani palestinesi avevano teso un’imboscata a un reparto avversario. E’ stato Mohammed al Thani, il premier del Qatar, ad accusare Hamas della provocazione. Benjamin Netanyahu non si è lasciato sfuggire l’opportunità di riprendere i bombardamenti, pesanti come prima del cessate il fuoco.
I 20 punti del “Piano Trump” prevedono la creazione di una forza internazionale di paesi arabo-musulmani che dovrebbe stabilizzare Gaza. Intanto il cosi detto “Board della pace”, un coordinamento civile-militare, dovrebbe mettere in piedi programmi, progetti e risorse economiche per la ricostruzione. Ma fino a che Hamas non consegna le armi e cede il controllo di Gaza, non ci sarà alcun passo successivo concreto.
E’ fuori dalla realtà pensare che la forza internale di stabilizzazione diventi di dissuasione, cioè d’imposizione della pace anche con l’uso della forza, come invece gli americani s’illudono che facciano: nessun paese al mondo rischierebbe la vita dei suoi soldati né investirebbe denaro per la ricostruzione. E nessun premier musulmano vorrebbe dare l’impressione di voler fare quello che gli israeliani non hanno raggiunto in due anni di guerra: sradicare Hamas dalla striscia.
Come nello stile dei movimenti islamici – anche Hezbollah in Libano è così – Hamas non pretende solo di restare nella striscia, conservando un certo numero di armi. Vuole anche continuare a controllare Gaza senza assumersi l’onere di governarla. E’ evidente che a questo punto del “Piano Trump” il massimo di concessioni che Hamas può offrire, non arriva al minimo di quanto Israele pretende per avanzare verso la pace.
L’unica seria possibilità che il processo di pace prosegua nel suo cammino è l’insistenza della prima delle sue qualità: la determinazione americana di premere su Israele e la forza negoziale dei paesi arabi su Hamas.

ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/2025/11/02/guerra-e-pace/

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