Le colpe dei padri, di Gaetano Veneto
Dopo una prima enciclica, di straordinario significato morale e ricchezza umana, la Evangelii Gaudium, papa Francesco nella scorsa estate si è ancora cimentato in una sfida titanica con i problemi della società contemporanea, stavolta prendendo le mosse da un messaggio, sempre attuale, offerto nove secoli prima da un altro Francesco, il Poverello di Assisi, che nel ringraziare il Signore, abbracciava tutto il mondo e le ricchezze della natura in un immenso gesto di amore.
Laudato si’, fra i tanti temi affrontati, non dimentica il lavoro, né poteva essere altrimenti visto che più volte il nostro Francesco ha avuto occasione di ricordare che la mancanza di lavoro, ancor prima e più della mancanza o limitatezza di un’adeguata retribuzione, rappresenta la più grande umiliazione per l’uomo, togliendogli dignità e ruolo sociale, emarginandolo, rendendolo impotente e, perfino, immiserendo la sua figura di padre e compagno di vita.
Per dare una risposta proprio a questo giornale e alla sua scelta di intitolarsi, non a caso mutuando un altro messaggio, altrettanto ricco di significati e di scelte, lanciato qualche decennio addietro da Don Milani, per rispondere cioè a “Cercasi un fine”, leggiamo insieme cosa scrive Francesco nell’enciclica: “… Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi?”.
Forse rispondendo a questi interrogativi, volutamente retorici per quello che si legge in questo documento universale, può trovarsi qualche risposta propositiva al grande e attuale problema dello svuotamento di dignità indotto dai modelli produttivi della moderna società capitalistica (e post capitalistica) attraverso lo strumento sempre più enfatizzato e diffuso del nuovo lavoro, quello flessibile, anzi, senza ipocrita perifrasi, precario.
Il grande sociologo Luciano Gallino sintetizza il fenomeno flessibilità – precariato in uno splendido saggio pubblicato pochi mesi della sua morte, intitolando lo stesso Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario. La conferma delle sue tesi si trova nell’attuale politica del Governo italiano. Con un provvedimento pomposamente definito Jobs Act, portato a dignità legislativa da governanti eternamente impegnati a sbandierare successi, promesse e “#svolte”, (con il solito hashtag-cancelletto, sempre anteposto a parole d’ordine da politicanti da strapazzo), l’Esecutivo propina slides e dati continuamente smentiti dai fatti, mentre il Paese continua a essere tra gli ultimi nella faticosa ripresa internazionale.
Le stesse assunzioni tanto reclamizzate sono sempre più “drogate” da incentivi che altro non sono se non transitori e caduchi sostegni per un mercato del lavoro sempre più precario, capace solo di mettere giovani contro anziani, uomini contro donne sempre sottopagate, e ancora disperati di un Sud senza futuro contro fratelli del Nord preoccupati, quando non imboniti dall’incultura leghista.
Eppure già nel 1999 l’Assemblea annuale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) presentava un rapporto del Direttore Generale intitolato Pour un travail décent, nel quale venivano delineate alcune necessarie garanzie per la sicurezza economica e sociale dei lavoratori in ogni angolo del globo.
Eccone alcune, per definire la “dignità (la decenza) di un lavoro” per tutti, dalla Germania all’India, dal Giappone alla Cina, dall’Italia con i suoi umilianti call center alla Namibia, per tutti i Paesi più poveri, con le loro fabbriche e miniere tragicamente “omicide”. Sicurezza dell’occupazione contro gli abusi nei licenziamenti, sicurezza professionale contro la dequalificazione e sottoutilizzazione specialmente dei giovani che vedono calpestata la loro professionalità o inutilizzata quella scolarità che tanto è costata ai genitori e allo stesso Paese.
Ancora l’OIL raccomandava sicurezza nei luoghi di lavoro nella battaglia contro gli infortuni, specialmente quelli mortali, falsamente quanto fatalmente ritenuti “connaturati al lavoro industriale”, nella logica del capitalismo rapinatore. Infine, la sicurezza del reddito, ultima ma non ultima garanzia perché tutti gli uomini, col lavoro debitamente retribuito, godano di una vita degnamente vissuta per sé ed i propri cari.
Dopo quarant’anni sembra avverarsi una profezia che, qualche mese prima della sua tragica morte, Pasolini lanciava in una sua Lettera Luterana. Così scriveva il grande umanista nei primi mesi del 1975: “Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti. È il coro – un coro democratico – che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurre e senza illustrarla, tanto gli pare naturale”. Eppure lo stesso Pasolini ricordava: “… Solo che il coro, dotato di tanta immemore e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la colpa dei padri ”.
Ma qual è la colpa dei padri? Proveremo a rispondere, per ora, con una battuta: l’incapacità e/o la mancanza di volontà di opporsi alla deriva, piattamente consumistica ed insieme apaticamente tollerante, di condizionamenti e blandizie di un sistema sociale, economico e politico che sempre più ha spossessato gli uomini, padri e figli, della coscienza critica di sé stessi, essenza e insieme frutto dei valori della cultura e della conoscenza, specialmente quella umanistica.
Con la politica del lavoro flessibile-precario, con le retribuzioni sempre meno protette da una contrattazione sindacale sempre più delegittimata dalla grande industria (Marchionne docet) e dal Governo sprezzante e chiuso a ogni dialogo, anche la Costituzione repubblicana viene progressivamente svilita e messa da parte: basti pensare ai principi sanciti dall’art. 36 in tema di “retribuzione sufficiente (per la vita “degna”) a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. E si badi che con queste esecrabili politiche, con questa deriva, non si rispetta nemmeno un Canone che novecento anni addietro il monaco Camaldolese Graziano consegnava ai secoli futuri sancendo che: “Retributio debet esse digna iustaque”.
Con retribuzioni come quelle dei call center, da noi, non si rispetta neppure quanto il nostro Francesco, per dare l’esatto significato della dignità del lavoro, così scrive nell’enciclica: “In qualunque impostazione di ecologia integrale, che non escluda l’essere umano, è indispensabile integrare il valore del lavoro”.
E questo valore non può che essere, oltre che economicamente degno, rispettoso di tutte le garanzie oggi sottratte, annichilite, svuotate da legislatori insieme inetti e demagoghi e da politici sempre più svuotati di energie, ridotti ad emarginate comparse, incapaci insieme di gestire e orientare, cambiandolo, un mondo oggi lontano da sogni e bisogni di ognuno, e perciò incapace di darsi un fine.
[docente universitario, già parlamentare, Bari] Gaetano Veneto