Il dibattito seguito all’annuncio dei nuovi dazi americani contro l’Europa, proclamati da Trump due giorni fa, si è subito disposto su due binari prevedibili: da un lato l’analisi economica, intenta a valutare contraccolpi sui mercati e sul Pil; dall’altro, la ricerca della risposta politica più efficace, tra prudenza diplomatica e reazioni muscolari che rischiano di avviare una spirale protezionistica.
Eppure, questo dibattito, confinato a parametri tecnici o diplomatici, trascura un aspetto decisivo: la lettera di Trump, che accusa l’Europa di aver sfruttato gli Stati Uniti, è anche un documento antropologico, espressione di una certa idea dell’uomo e dei rapporti tra popoli. In quei messaggi, la complessità mondiale si riduce a una narrazione vittimistica, in cui gli Stati Uniti si dipingono come vittime di un complotto commerciale globale. Questo schema richiama ciò che in psichiatria si definisce delirio persecutorio: la convinzione incrollabile di essere al centro di una trama ostile, fondata su fatti inesistenti o grossolanamente distorti. È una modalità di pensiero che trasforma la complessità delle relazioni economiche globali – frutto di mille fattori storici, geografici, culturali e tecnologici – in una semplice storia di carnefici e vittime, dove il ruolo della vittima spetta sempre e comunque a chi la racconta.
È vero che i rapporti internazionali implicano scambi economici e bilance commerciali, ma essi si reggono anche su fiducia, regole condivise, compromesso e sul senso di investire nel bene comune globale. Tutto ciò sfugge al linguaggio trumpiano, che riduce ogni relazione a sospetto e a scambi a somma zero, dove vincere equivale a depredare l’altro. Per questo, la risposta europea non dovrebbe esaurirsi in contromisure tariffarie simmetriche o in strategie negoziali di breve respiro, per quanto necessarie possano apparire nell’immediato.
Il vero antidoto alla retorica che riduce tutto a scambio predatorio e competizione spietata sta nel richiamo esplicito a un’altra antropologia, elaborata in larga parte proprio nel laboratorio europeo attraverso secoli di conflitti superati e di riconciliazioni faticosamente costruite. Un’antropologia che ha posto al centro la dignità intrinseca dell’altro, riconoscendolo non solo come partner economico da cui estrarre valore, ma come persona portatrice di diritti inalienabili, di valore intrinseco e di possibilità di legami gratuiti e generativi. Questa visione, radicata nel personalismo cristiano e nell’illuminismo, vede gli scambi internazionali non solo come transazioni, ma come costruzione di fiducia e responsabilità, senza cui ogni accordo rischia di dissolversi appena cambiano le convenienze.
Non a caso, già nel luglio 2020, oltre centocinquanta intellettuali di diverso orientamento firmarono “A Letter on Justice and Open Debate” su Harper’s Magazine. Figure come Noam Chomsky, Margaret Atwood e Salman Rushdie denunciavano il rischio di un dibattito pubblico sempre più ristretto, dominato da visioni manichee e incapace di tollerare il dissenso. La lettera avvertiva che «il libero scambio di informazioni e di idee, linfa vitale di una società liberale, è ogni giorno più compresso» e sottolineava come questa chiusura penalizzasse i più deboli, minando la partecipazione democratica. Trump vi veniva indicato come catalizzatore di forze illiberali e di una polarizzazione tossica, alimentata dalla retorica dello scontro e dell’ingiustizia subita.
Il legame tra quella denuncia intellettuale e l’attuale vicenda dei dazi è più stretto di quanto appaia. Anche oggi, la retorica trumpiana sulle tariffe sacrifica la complessità delle relazioni internazionali a una narrativa semplicistica di vittimizzazione, che divide il mondo in amici e nemici, giusti e truffatori. Come nel 2020, la risposta non può fermarsi a questioni tecniche o economiche, ma deve difendere il valore del pensiero complesso, il dibattito libero e la necessità di non cedere alla logica populista dello scontro permanente.
Sarebbe certamente ingenuo, e forse persino pericoloso, credere che la semplice enunciazione di principi antropologici alternativi basti a frenare derive economiche e politiche di questa portata storica. Ma senza il coraggio intellettuale e morale di mettere in discussione la logica paranoica e riduttiva che ispira simili politiche, ogni risposta rischia di restare fatalmente intrappolata sul terreno stesso scelto dall’avversario. La vera partita epocale, invece, si gioca sul terreno fondamentale di quale idea di umano e di convivenza vogliamo difendere e promuovere per le generazioni future. È una sfida che richiede non solo abilità negoziale e fermezza politica, ma soprattutto chiarezza filosofica e coerenza antropologica nel testimoniare che un altro modo di stare al mondo è non solo possibile, ma necessario per la sopravvivenza stessa della civiltà.
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